Ritengo che non ci sia più tempo da perdere: anche un seminarista o un trasognato “imbottigliatore di nuvole” si renderebbero conto che è necessario rivedere la normativa sui cosiddetti “pentiti”.
Con urgenza. E con realismo. Prima che sia troppo tardi!…
Con realismo, perché il progetto di riforma della disciplina riguardante il mondo (ancora inesplorato) dei “pentiti”, pur affrontando efficacemente i temi relativi alla protezione e al trattamento sanzionatorio di costoro, non mi pare che risolva il problema (delicatissimo, e ad alta tensione) della tutela della sterilizzata genuinità delle loro dichiarazioni, né quello della verifica della loro affidabilità, né, infine, quello della revoca o sostituzione della custodia cautelare.
Il problema essenziale è quello di garantire la schiettezza delle rivelazioni di coloro che ho definito i tetri, plumbei, funerari e “iettatori” “reduci dal fronte”.
Per risolverlo, sono indispensabili – a mio giudizio – alcuni ritocchi smaliziati al progetto di riforma.
Li segnalo qui di seguito, con scabra sincerità, e senza gesuitiche cautele.
Divieto assoluto dei cosiddetti colloqui investigativi riservati al personale della DIA dall’art.18 bis dell’ordinamento penitenziario: e ciò sia per ragioni di trasparenza, sia per motivi estetici: il “peccatore” che intende imboccare la strada bitumata e scorrevole della collaborazione deve farlo da solo e, se ci riesce, con dignità.
Anche se non avrà niente a che vedere con la drammatica “notte dell’Innominato”, la notte che precede il suo “pentimento” dovrà essere vissuta solo da lui. Chi ha deciso di collaborare con la giustizia, ne informa personalmente l’Ufficio di Procura.
A questo punto, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ne curerà l’assegnazione a un istituto che garantisca “le specifiche esigenze di sicurezza”.
Le dichiarazioni del “confidente” vengono raccolte dal rappresentante dell’Ufficio di Procura, con l’assistenza del Gip
(La presenza del Gip – la cui opportunità è stata avvertita anche da altri e in sede parlamentare – serve a spegnere diffidenze, e sospetti).
Per tutto il tempo di durata dell’assunzione delle dichiarazioni confessorie (e non già fino alla redazione del verbale illustrativo del contenuto della collaborazione), il “ pentito” dovrà restare – per così dire – “sigillato” in carcere (“sottovuoto spinto”) senza possibilità di colloqui con chicchessia, e senza ricevere corrispondenza.
(Mi vengono in mente, con sorridente malizia, la “storica” - e un po’ famigerata - “lettera dal carcere” con cui il “pentito” Giacomo Lauro sollecitava il direttore della DIA ad andarlo a trovare, “munito di tutti i dati riguardanti gli episodi delittuosi accaduti a Reggio Calabria dopo l’”omicidio dell’ingegnere Musella”; e la registrazione ambientale del colloquio, “allucinato” del giovane Giuseppe Calabrò, fresco di pentimento, col proprio genitore).
Vanno “severamente vietati” gli “appalti” delle assistenze legali ai “pentiti”: lo stesso avvocato non potrà difendere contemporaneamente più “collaboratori” che riferiscano sugli stessi avvenimenti: il divieto è imposto da motivi di trasparenza e di stile.
Il termine di 180 giorni per l’assunzione delle dichiarazioni confessorie appare eccessivo: gli “esercizi spirituali” dell’ex “peccatore” possono essere conclusi anche in un termine molto più breve: neanche Casanova o Rasputin avrebbero avuto bisogno di sei mesi per dettare le loro memorie.
Il “confidente” non può sconfinare dall’area che è stata transennata in sede di verbale illustrativo del contenuto della collaborazione.
Il collaboratore non può fare furbastri riferimenti a notizie apprese da persone defunte, né da coloro che egli accusa o chiama in correità.
Va affrontato (e risolto) il problema dell’art.192 n.3 del codice di rito, riguardante le cosiddette “dichiarazioni incrociate”: anche alla luce (sconvolgente) degli accertati incontri tra “pentiti”, seguiti da orditure e intrighi accusatori di stampo levantino (se non addirittura di stile rinascimentale).
Insomma: è bene che il “peccatore” che intende sottoporsi a quella specie di “Montecatini dello spirito” che è la collaborazione , sappia che col suo “pentimento” egli non vincerà certamente il superpremio del “superenalotto”.
Queste riflessioni appartengono a un grande penalista scomparso l’anno passato, Peppino Nucera, mio grande amico, eccezionale avvocato, ma soprattutto grande uomo. Un piccolo omaggio alla sua memoria.
Con urgenza. E con realismo. Prima che sia troppo tardi!…
Con realismo, perché il progetto di riforma della disciplina riguardante il mondo (ancora inesplorato) dei “pentiti”, pur affrontando efficacemente i temi relativi alla protezione e al trattamento sanzionatorio di costoro, non mi pare che risolva il problema (delicatissimo, e ad alta tensione) della tutela della sterilizzata genuinità delle loro dichiarazioni, né quello della verifica della loro affidabilità, né, infine, quello della revoca o sostituzione della custodia cautelare.
Il problema essenziale è quello di garantire la schiettezza delle rivelazioni di coloro che ho definito i tetri, plumbei, funerari e “iettatori” “reduci dal fronte”.
Per risolverlo, sono indispensabili – a mio giudizio – alcuni ritocchi smaliziati al progetto di riforma.
Li segnalo qui di seguito, con scabra sincerità, e senza gesuitiche cautele.
Divieto assoluto dei cosiddetti colloqui investigativi riservati al personale della DIA dall’art.18 bis dell’ordinamento penitenziario: e ciò sia per ragioni di trasparenza, sia per motivi estetici: il “peccatore” che intende imboccare la strada bitumata e scorrevole della collaborazione deve farlo da solo e, se ci riesce, con dignità.
Anche se non avrà niente a che vedere con la drammatica “notte dell’Innominato”, la notte che precede il suo “pentimento” dovrà essere vissuta solo da lui. Chi ha deciso di collaborare con la giustizia, ne informa personalmente l’Ufficio di Procura.
A questo punto, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ne curerà l’assegnazione a un istituto che garantisca “le specifiche esigenze di sicurezza”.
Le dichiarazioni del “confidente” vengono raccolte dal rappresentante dell’Ufficio di Procura, con l’assistenza del Gip
(La presenza del Gip – la cui opportunità è stata avvertita anche da altri e in sede parlamentare – serve a spegnere diffidenze, e sospetti).
Per tutto il tempo di durata dell’assunzione delle dichiarazioni confessorie (e non già fino alla redazione del verbale illustrativo del contenuto della collaborazione), il “ pentito” dovrà restare – per così dire – “sigillato” in carcere (“sottovuoto spinto”) senza possibilità di colloqui con chicchessia, e senza ricevere corrispondenza.
(Mi vengono in mente, con sorridente malizia, la “storica” - e un po’ famigerata - “lettera dal carcere” con cui il “pentito” Giacomo Lauro sollecitava il direttore della DIA ad andarlo a trovare, “munito di tutti i dati riguardanti gli episodi delittuosi accaduti a Reggio Calabria dopo l’”omicidio dell’ingegnere Musella”; e la registrazione ambientale del colloquio, “allucinato” del giovane Giuseppe Calabrò, fresco di pentimento, col proprio genitore).
Vanno “severamente vietati” gli “appalti” delle assistenze legali ai “pentiti”: lo stesso avvocato non potrà difendere contemporaneamente più “collaboratori” che riferiscano sugli stessi avvenimenti: il divieto è imposto da motivi di trasparenza e di stile.
Il termine di 180 giorni per l’assunzione delle dichiarazioni confessorie appare eccessivo: gli “esercizi spirituali” dell’ex “peccatore” possono essere conclusi anche in un termine molto più breve: neanche Casanova o Rasputin avrebbero avuto bisogno di sei mesi per dettare le loro memorie.
Il “confidente” non può sconfinare dall’area che è stata transennata in sede di verbale illustrativo del contenuto della collaborazione.
Il collaboratore non può fare furbastri riferimenti a notizie apprese da persone defunte, né da coloro che egli accusa o chiama in correità.
Va affrontato (e risolto) il problema dell’art.192 n.3 del codice di rito, riguardante le cosiddette “dichiarazioni incrociate”: anche alla luce (sconvolgente) degli accertati incontri tra “pentiti”, seguiti da orditure e intrighi accusatori di stampo levantino (se non addirittura di stile rinascimentale).
Insomma: è bene che il “peccatore” che intende sottoporsi a quella specie di “Montecatini dello spirito” che è la collaborazione , sappia che col suo “pentimento” egli non vincerà certamente il superpremio del “superenalotto”.
Queste riflessioni appartengono a un grande penalista scomparso l’anno passato, Peppino Nucera, mio grande amico, eccezionale avvocato, ma soprattutto grande uomo. Un piccolo omaggio alla sua memoria.
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