28/07/10

DIMISSIONI DI RAFFA, A PERDERE E' SOLTANTO LA CITTA'


Qualcuno, ed io per primo, aveva creduto che la vicenda Raffa potesse concludersi diversamente, che magari all'ultimo istante qualcosa accadesse e si evitasse alla città un passo indietro che va contro la storia. Il sindaco facente funzioni è stato "dimissionato" dopo una riunione nello storico bar del teatro comunale dove, negli anni della prima repubblica, si "faceva" la politica locale.
Conosco Giuseppe Raffa da anni, sono un cittadino pellarese d'adozione avendo trascorso nel rione anni bellissimi e quando posso ci torno sempre con piacere. Il mio rapporto con il medico-politico risale alle sue prime esperienze nella Circoscrizione: ho avuto modo di apprezzarne la signorilità, la grande disponibilità verso la gente, non solo verso i suoi elettori, insomma la politica vissuta come missione.
Ho avuto occasione d'incontrarlo qualche giorno fa, la sera in cui nel salone dei lampadari si celebrava l'anniversario della rivolta per il capoluogo, sono stato portato nel suo studio dal collega Totò Latella, un altro pellarese amico sin dai tempi dell'adolescenza.
Raffa stava rilasciando un'intervista, con la solita pacatezza, sempre sorridente, niente lasciava presagire, o almeno non me ne sono accorto, la bufera che stava per abbattersi su di lui, i congiurati stavano affilando i pugnali.
Chi ci perde, in questa storia, è certamente la città: tutti, nessuno escluso, dicono di averne a cuore le sorti, ma poi sono pronti ad obbedire agli ordini del mammasantissima di turno. Ed è triste constatare come, a livello nazionale, pochissime voci si sono levate, una tra tutte quella di Angela Napoli.
Disturbare il manovratore, nella politica di questi tempi, può essere fatale anche per una persona per bene, seria, quale è senza dubbio Giuseppe Raffa. Sono convinto che, sotto qualsiasi bandiera il buon Peppe dovesse presentarsi, ammesso che abbia voglia di tornare sui banchi del consiglio comunale, saranno in molti a seguirlo.
Intanto, attendiamo, dopo la pausa agostana, gli sviluppi di un paio d'inchieste giudiziarie le cui avvisaglie si sono già intraviste, la nebbia su quella che viene chiamata la "zona grigia" potrebbe diradarsi. E, forse, capiremo perchè Raffa è stato invitato a togliere il disturbo.

26/07/10

MORTO IL PATRIARCA CHE MISE LA PACE TRA LE COSCHE IN GUERRA


Domenico Alvaro, l'anziano boss di Sinopoli è morto nel suo letto a seguito di una grave malattia che gli aveva evitato l'ultima umiliazione delle manette, giorni fa, quando è scattata la maxi retata dell'inchiesta "Crimine".
E così don Mico, come veniva chiamato, ha chiuso la sua esistenza terrena come altri personaggi della vecchia 'ndrangheta, quali i fratelli Girolamo detto Mommo e Giuseppe Piromalli, alias "mussu stortu" Domenico Libri, alleato storico della famiglia De Stefano, il "barone" Vincenzo Macrì, nipote di zi 'Ntoni, assassinato dalle giovani leve all'inizio della prima guerra di mafia negli anni 70. E, più recentemente, Peppantonio Italiano, capo del locale di Delianuova, Peppino Pesce, incontrastato boss rosarnese, l'elenco potrebbe essere più lungo.
Con la scomparsa dell'ultra ottantenne Alvaro si chiude un'epoca. Lui, era diverso dagli altri veterani della 'ndrangheta finiti nelle maglie della recente operazione dopo una lunga indagine che ha permesso di individuare obiettivi e ripartizione del potere dopo la conclusione del conflitto tra le cosche reggine che ha provocato in cinque anni circa settecento vittime.
Se quella assurda guerra ebbe fine, infatti, lo si deve a don Mico, uomo di pochissime parole e di molti silenzi, che riuscì a mettere attorno a un tavolo i capi delle famiglie in lotta ed a convincere coloro che, fino a poche ore prima, non avevano esitato a seminare sangue e terrore, a mettere da parte ogni rancore e siglare un "armistizio" che ancora regge.
Il suo eccezionale carisma aveva portato in Calabria, quali "testimonial" dell'accordo, pezzi da novanta di Cosa Nostra e della mafia americana, di fronte ai quali i capi cosca tra loro rivali, abbassarono il capo e accettarono le regole. Da un giorno all'altro, si smise di sparare.
Forse, per favorire la pace, ma questo ancora non è stato provato, ci fu anche l'intervento di personaggi della cosiddetta zona grigia, politici, imprenditori, gente non organica alla 'ndrangheta ma ugualmente da essa dipendente.
Ammalato, piegato da anni di carcere, Domenico Alvaro si è visto pian piano privato dei beni, mentre suoi congiunti e gli affiliati ad uno ad uno finivano in prigione. Scampato alle guerre, sapeva che non avrebbe trascorso questi anni di vecchiaia in tranquillità, ma il male se lo è portato via. Un re che, senza aver mai regnato al di fuori del suo paese, ha avuto un prestigio solo a pochissimi riservato: i segreti di quella che una volta era chiamata onorata società se li è portati con lui.


Nella foto, l'attuale capo della 'ndrangheta reggina Domenico Oppedisano

23/07/10

QUATTRONE HA CERCATO COL SUICIDIO QUELLA PACE CHE AVEVA PERDUTO


Di fronte a un gesto disperato qual è il suicidio di una persona "normale" l'interrogativo che ci si pone, sgomenti, dopo la tragica fine di Paolo Quattrone, è capire qual è il limite oltre il quale nella mente di un uomo la volontà di porre fine all'esistenza prevale sul desiderio di "vivere la vita" tanto più se, ed è questo il caso di Quattrone, si è credenti.
Paolo Quattrone, a prima vista, poteva sembrare un burbero, il suo viso accigliato induceva nell'interlocutore un certo timore, cosa che era accaduta anche a me quando, anni fa, lo incontrai la prima volta per ragioni di lavoro.
Io ero il cronista che cercava di capire, lui l'uomo di legge, inflessibile direttore di carceri, vittima di pesanti avvertimenti. Ricordo che, seppure oggetto di gravi "attenzioni" da parte di chi era abituato alle carceri "allegre" dove entravano donne e champagne, per non parlare delle droghe, l'avevo trovato sereno, quasi incurante di quanto gli era accaduto.
In tutti questi anni Quattrone, che riusciva a stabilire rapporti di fraterna colleganza con i suoi collaboratori, costretti spesso ad un lavoro stressante e fuori da ogni orario, aveva servito lo Stato, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, riscuotendo ammirazione e stima, facendo, come si suol dire, progressi nella carriera, senza servilismi o "spinte" d'altro genere.
Negli ultimi tempi, però, qualcosa s'era spezzato, non soltanto nel rapporto con gli organi superiori, una vicenda giudiziaria di scarso livello, in un mondo di ladri e corrotti, lo aveva visto coinvolto e, lo confermano le persone a lui più vicine, uno per tutti Mario Nasone, particolarmente toccato.
Non accettava di essere trattato male da quello Stato per il quale aveva sempre dato tutto, senza obiezioni, obbedienza assoluta, lui con la faccia apparentemente truce, ma sempre pronto a slanci di grande umanità. Un mestiere difficile, il suo. Cosa è accaduto, al punto da indurlo al gesto estremo, il sacrificio della vita, staccarsi per sempre dalla famiglia che amava?. Forse non lo sapremo mai. Rimane lo sconcerto per questa morte assurda in un caldo pomeriggio sotto un ponte tra mucchi di rifiuti: fino all'ultimo ha voluto risparmiare agli altri lo spettacolo d'una fine così assurda. Il Signore, nella sua misericordia, gli dia in cielo quella pace che, in terra, aveva perduto.

16/07/10

LA 'NDRANGHETA SI ADEGUA, IL CAPO DEI CAPI CON INCARICO A TERMINE


Continua sui mezzi d'informazione l'alluvione di servizi, corredati dalle "riflessioni" di presunti mafiologi in servizio permanente effettivo, dopo la maxi operazione contro la 'ndrangheta lombardo-calabra che ha portato (in molti casi ri-portato) nelle patrie galere sempre più affollate centinaia di persone tra cui il vecchio capobastone rosarnese Oppedisano, indicato, addirittura come "il capo dei capi".
A leggere l'elenco degli anziani 'ndranghetisti messi in cella nonostante l'età avanzata consiglierebbe loro una più tranquilla permanenza in casa di riposo, si è avuta da subito la conferma del passo indietro fatto da quella che viene ritenuta in assoluto la consorteria criminale più pericolosa.
Dopo le guerre che hanno sconvolto la geografia delle cosche, con centinaia di vittime, dall'una e dall'altra parte, una volta raggiunta una faticosissima pace, grazie all'intervento dei cosiddetti patriarchi, e la conseguente rigida divisione dei territori, si è pensato che solo l'autorevolezza dei vecchi padrini ormai rassegnati alla pensione avrebbe potuto impedire rigurgiti di violenza e la ripresa delle ostilità.
Qualche omicidio, di tanto in tanto, c'è scappato, ma esso era stato preventivamente autorizzato dalla "commissione" che, s'è saputo ora, adesso si chiama "provincia" con una guida in carica solo per un biennio, eletta col consenso di tutti i capi dei locali di 'ndrangheta sparsi in tutta Italia.
Le risultanze delle recenti indagini, facilitate dalle vere e proprie autoconfessioni dei vari personaggi intercettati, fotografati, filmati, catturati dalle microspie nelle loro a volte tragiche elucubrazioni, hanno permesso di verificare che quello che è sempre stato un rito della onorata società prima e della cosiddetta mafia delle scarpe lucide dopo, continua a ripetersi.
Ci riferiamo al summit di Polsi dove, in mezzo alle migliaia di fedeli che si recano a venerare la madonna della montagna, con tutto il contorno di balli, canti e grandi mangiate, si mescolano gli 'ndranghetisti.
Ma stavolta, grazie ai moderni mezzi tecnici che, un tempo, poliziotti e carabinieri non avevano, si è potuto squarciare il velo su quanto, sotto gli alberi secolari, il "parlamento" delle 'ndrine ha deciso, conferendo i gradi, tra cui quello di Crimine, un incarico a termine, il precariato ha preso piede anche tra la delinquenza associata.
Nonostante le connivenze, le fughe di notizie, gli "appoggi" della politica, il grande blizt che ai più anziani cronisti ha ricordato l'operazione del questore Carmelo Marzano, è andato a buon fine, solo qualche pesce è riuscito a scappare dalle maglie della rete.
Adesso si aspetta la "scossa" d'assestamento: la piovra è ferita, pronta a far ricrescere i tentacoli mozzati. I vecchi padrini non aprono bocca davanti ai giudici, sanno comunque che il tramonto, per loro, stavolta, sarà definitivo.

13/07/10

ERAVAMO GIOVANI E CARICHI DI SPERANZE, MA SU REGGIO CALAVA IL BUIO


Anche quei giorni, così come adesso, erano stati caldissimi, dopo la primavera elettorale che aveva portato alla Regione appena nata personaggi di primo piano della politica reggina. Io, assieme ad altri amici e colleghi, eravamo reduci dall'esperienza della Tribuna del Mezzogiorno, che aveva chiuso i battenti da qualche mese, dopo un accordo tra l'editore di Gazzetta del Sud, il "mugnaio" Uberto Bonino, e il cementiere Pesenti, proprietario del giornale la cui concorrenza era diventata troppo fastidiosa.
La campagna elettorale era stata molto animata, personalmente ero vicino a due candidati: Oreste Granillo, il presidentissimo della Reggina che aveva portato in B, e Lodovico Ligato, che aveva lasciato il giornalismo per gettarsi anima e corpo nella politica. In breve sarebbe diventato un protagonista, dentro e fuori il suo partito, la Dc, ma il destino gli avrebbe riservato una fine terribile. E ci sarei stato io, quella notte a Bocale, a correre per primo e vederlo steso in terra crivellato dal piombo mafioso.
Dal 5 di luglio, dopo il famoso rapporto alla città tenuto dal sindaco Piero Battaglia, gli animi s'erano surriscaldati, ai miei concittadini non andava assolutamente giù che Catanzaro si appropriasse del "pennacchio" di capoluogo di regione per un accordo tra i mammasantissima politici, tra cui gli odiatissimi Giacomo Mancini e Riccardo Misasi.
La giornata del 13, mentre i neo consiglieri tenevano la loro prima riunione a Catanzaro( Battaglia avrebbe poi ceduto a Casalinuovo l'uso del salone di palazzo San Giorgio dove il consiglio sarebbe rimasto per anni) segnò i primi "movimenti" con cortei improvvisati e uno sciopero dei commercianti.
Il giorno dopo, è il 14, la presa della Bastiglia, ricordano i libri di storia, la città esplode, barricate, sassaiole, primi arresti, intervento del prefetto De Rossi che fa liberare i fermati, blocco di tutti i collegamenti. Ma è la sera dopo che in via Logoteta, una traversina del Corso, vicinissima a piazza Italia, avviene il fattaccio, la guerra per il capoluogo fa la sua prima vittima, un inerme ferroviere di 46 anni, Bruno Labate.
Il resto dei due anni successivi è già storia: morti, feriti a centinaia, mutilati, fedine penali "macchiate" per tanti giovani impossibilitati a partecipare ai concorsi. La rivolta finì quando i reggini, anche se a malincuore e convinti che, ancora una volta, lo Stato li avrebbe traditi, accettarono il compromesso, un equivoco storico-politico senza senso, della Giunta a Catanzaro e il Consiglio a Reggio. Sullo sfondo, la promessa del fantomatico "pacchetto Colombo" di industrie mai arrivate.
In quei mesi, esaltante, l'esperienza del settimanale "Nuovo Sud" edito dal cavaliere del lavoro Amedeo Matacena, indicato come uno dei finanziatori della rivolta e per questo persino incarcerato. Lo dirigeva Ugo Sardella, che era stato il mio maestro alla Tribuna, e ci ho lavorato fino a quando non arrivò il primo quotidiano fatto da calabresi per i calabresi, come recitava lo slogan di lancio, soldi della Sir, padrino politico Mancini, stabilimento a Cosenza, redazioni nelle altre città della regione.
Passai così da giornalista "amico" dei fascisti rivoltosi (almeno così credevano alcuni ottusi della sinistra d'allora) a servo manciniano: nessuno sapeva che il giornale, in circa dieci anni di vita, avrebbe formato una scuola di giornalisti di grande levatura, destinati, più o meno, a importanti carriere anche fuori dalla Calabria.
Molti di coloro che oggi pontificano, nulla sanno della rivolta perchè, o anagraficamente assenti o perchè impegnati in altri mestieri, non escluso quello di portaborse dei politici del tempo. C'è un pericolo concreto, con queste rievocazioni a distanza di quarant'anni, solo poche veramente sentite e non a fini puramente commerciali: rinfocolare odi ormai sopiti, riaprire vecchie ferite, i problemi ormai sono altri, e bisogna darsi da fare, prima che la Calabria affondi definitivamente.
Rimane il ricordo di quei giorni, eravamo giovani e pieni di speranza, poi arrivò il buio: onore a chi ha sacrificato la vita per quegli ideali e per chi ha lottato per conservarli, più vivi che mai.

Nella foto Ansa, autore Rosario Cananzi, i blindati pronti a "conquistare" Reggio

09/07/10

E' ANCORA DI GRANDE ATTUALITA' LA LEZIONE DI MARIO BORSA


La faccia di questo signore, raffigurata in alto a sinistra, la classica figura del gentiluomo di stampo ottocentesco, non dirà certamente nulla ai giovani delle nuove generazioni, anche a giornalisti che questo mestiere l'hanno iniziato negli anni quando il ricordo della guerra e del terribile dopoguerra era ormai lontano.
Quest'uomo si chiamava Mario Borsa, è stato un grande giornalista, fervente antifascista, figlio di contadini del Lodigiano, ed ha diretto il Corriere della Sera subito dopo la Liberazione, in momenti difficili per l'Italia che cercava di rialzare la testa.
In questi giorni di grande dibattito nella nostra categoria e non solo, per via della cosiddetta legge bavaglio, mentre le fonti d'informazione si spengono per protesta, mi è tornato più volte alla mente Mario Borsa che, nei testi di storia del giornalismo viene ricordato come colui che da fine letterato, antifascista punito dal regime persino col carcere, non infierì su quei colleghi che al Corriere, per anni, avevano lavorato agli ordini del famigerato Minculpop o, peggio, dell'Ovra, autentiche spie di redazione.
Non è che, al giorno d'oggi, certi soggetti, nelle redazioni, al servizio di altre entità, non ci siano, ma questo è un altro discorso.
Borsa arrivò, si legge nella bellissima storia del Corriere scritta da Glauco Licata, e consegnò al proto, una figura ormai praticamente scomparsa nell'era delle tecnologie, il suo editoriale, poche righe che rilette a distanza di oltre sessant'anni, hanno ancora una freschezza e un'attualità incredibili.
Ho pensato, pertanto, proprio oggi, in una giornata particolare, di riproporla ai miei affezionati lettori, con la speranza che anche i giovani che si affacciano alla professione giornalistica (da commissario d'esami l'ho fatto spesso) la leggano e ne traggano insegnamento.

" Dite sempre quello che è bene e che vi par tale, anche se questo bene non va precisamente a genio ai vostri amici.
Dite sempre quello che è giusto, anche se ne va della vostra posizione, della vostra quiete, della vostra vita.
Siate dunque indipendenti e inchinatevi solo davanti alla libertà, ricordandovi che prima d'essere un diritto, la libertà è un dovere".

06/07/10

A ME IL BAVAGLIO NESSUNO RIUSCIRA' A METTERLO

A quasi due anni dalla nascita di questo blog che tanti amici continuano affettuosamente a seguire, ormai nel pieno d'una estate che s'annuncia caldissima, e non soltanto dal punto di vista atmosferico, sono tante le cose che mi vengono in mente, tante quelle che vorrei dire ma non posso perchè il bavaglio è d'obbligo, e non perchè lo impone una legge che del resto ancora non c'è.
Il vecchio cronista porta dentro di sè l'archivio che nessuno al di fuori di lui può aprire, i segreti d'una vita passata a raccontare i drammi dell' umanità dolente, tra un'esperienza editoriale e l'altra.
Mi viene in mente un piccolo elenco di cose che vorrei accadessero, che NON accadessero, che sicuramente accadranno, ma forse resterà soltanto un pio desiderio.
Vorrei, in primo luogo, che un bavaglio se lo mettessero tutti quei politici che ogni giorno, grazie anche alla compiacenza di colleghi, diciamo così, distratti o soltanto pigri, infarciscono le cronache con le loro dichiarazioni, quale che sia l'argomento, l'importante è apparire.
Vorrei, poi, che il presidente tuttofare della Reggina ascoltasse i consigli che il buon Gianni Baccellieri gli dà dai microfoni di Radio Touring. Spero che la sua seguitissima trasmissione all'ora di pranzo continui, per tutta l'estate, è l'unica voce seria nel panorama di lecchini in servizio permanente effettivo.
A proposito, voglio ringraziare Baccellieri che l'altro giorno, mi ha ricordato, assieme ad altri, tra coloro che diedero vita alla radio ora la più seguita, e che anni dopo contribuirono a salvarla. Rifarei tutto, l'abbiamo lasciata in buone mani.
Vorrei che l'inchiesta giudiziaria di cui tanto s'è parlato in questi giorni, raggiunga la Meta che gli uomini del dottor Pignatone si sono prefissata, cioè scoperchiare il calderone delle commistioni mafia-affari-politica, e anche, aggiungo io, giornalismo sporco, perchè anche in questa sventurata categoria di cui faccio parte c'è parecchio marcio.
Vorrei che tutto fosse chiaro, per evitare generalizzazioni e caccia alle streghe indiscriminata, il rischio è di rafforzare nel loro "prestigio" personaggi che definire chiacchierati è eufemistico.
Vorrei un'estate più sobria, nel rispetto dell'austerity imposta dal Governo, che non si parli, come è accaduto in questi anni, d'una Calabria sprecona, tutta feste e premi, musica a suon di milioni e sagre all'insegna del più vieto provincialismo.
La lista dei desideri sarebbe lunghissima, mi fermo, non prima d'aver rivendicato il mio diritto alla parola scritta, il bavaglio, lo dico chiaro, dopo una vita spesa a raccontare, sempre e comunque la verità, non me lo faccio mettere.