31/12/08

ADDIO AL 2008 SENZA TROPPI RIMPIANTI

Dunque, il 2008 toglie il disturbo, senza troppi rimpianti, arriva il 2009 con tante speranze ma poche certezze. Tutti sono concordi nel dire che ci attendono tanti altri mesi difficili, si parla di recessione alle porte, anche se da parte di chi ci governa arrivano inviti all’ottimismo, a dare fondo alle ultime riserve, per non fermare i consumi.
Noi crediamo che la virtù stia nel mezzo, che dobbiamo contare sul buonsenso degli italiani e sperare nel tradizionale “stellone” che nel bene o nel male ci ha sempre dato una mano nei momenti più bui della nostra storia.
Si prevede un altro anno nero per quanto riguarda l’editoria: illuminante è la lunga lettera che i componenti il comitato di redazione del Corriere della Sera hanno scritto agli azionisti che avevano preannunciato una “rimodulazione” (quanto è inquietante questa parola!) del piano editoriale, lasciando presagire una politica fatta di tagli.
Certo, il calo della pubblicità è evidente, basta vedere quanto sono “magri” i giornali che, solitamente in questo periodo, erano trasformati in contenitori d’inserzioni. Le vendite, poi, salvo qualche rara eccezione, segnano il passo, per cui addio ai bilanci sostanziosi e bloccati i progetti di nuove iniziative.
In Calabria, poi, la situazione della stampa quotidiana non è certamente incoraggiante: Gazzetta del Sud, Il Quotidiano, Calabria Ora, il Domani, cercano di mantenere le loro posizioni sul mercato. Sospese le pubblicazioni della Provincia cosentina, Il giornale di Calabria è su internet, si è parlato della nascita di un altro quotidiano nell’area dello Stretto, ma tutto s’è bloccato, di fronte alle previsioni di spesa che hanno allarmato i possibili sostenitori dell’iniziativa.
La Gazzetta soffre d’una lenta ma costante emorragia di copie, stando ai dati di Prima Comunicazione, tiene il Quotidiano che però sta pagando a caro prezzo l’idea dissennata di fare un giornale a Roma, un autentico fallimento, e l’aumento dei costi della redazione che è diventata pletorica, certamente sovradimensionata.
Vendite stabili, che da sole basterebbero a garantire il pareggio di bilancio, ma gli editori Dodaro hanno deciso, per evitare il tracollo, di far partire la cassa integrazione a rotazione, in attesa di tempi migliori.
I dati di Calabria Ora, che parevano incoraggianti, segnano adesso cifre in calo e ci pare che il giornale cosentino, troppo appiattito sulle posizioni di una parte del Pd ex Pds (Loiero, Minniti, Adamo) abbia perso gran parte della spinta propulsiva. Non sappiamo fino a quando gli editori saranno in grado di sostenere l’esposizione economica.
Vivacchia, rintanato nel Catanzarese, il Domani dell’intraprendente editore Guido Talarico, che pure, quando aveva lanciato il giornale con velleità regionali, aveva creduto di poter trovare sul mercato una decina di migliaia di copie.
Informazione on line: anche qui siamo ai verbi difettivi, con una eccezione, per Strill.it che Giusva Branca, a prezzo di grandi sacrifici, ha portato su livelli professionali notevoli. Il giornale ha acquistato autorevolezza, ma di soldi ne girano pochi, attorno a Strill si sta formando una nidiata di giovani cronisti veramente in gamba. Ma quali prospettive li attendono? Dio solo lo sa.
Via il 2008, si stappa lo spumante, s’accendono innocui bengala (ma come al solito si ripeterà il rito della stupidità dei botti e dei colpi d’arma da fuoco) e si mangiano lenticchie con la speranza che portino denaro in famiglia.
Ai miei affezionati lettori, agli amici più cari auguro un anno nuovo all’insegna della pace, della salute, dell’amore.

29/12/08

VITALONE, LE MENZOGNE POSSONO ESSERE MORTALI

Ho conosciuto Claudio Vitalone, magistrato romano di origine calabrese, qualche anno fa in occasione d’una serata conviviale. A presentarmelo fu un suo cugino, Bruno Vitalone, di Palizzi, un tipo un po’ guascone ma simpatico, amante della bella vita, che solo in età matura s’era deciso ad abbandonare le velleità giornalistiche per andare a lavorare, grazie alle sue entrature democristiane, in un ministero.
Bruno era solito passare dal giornale, portava spesso qualche notizia proveniente dal sottobosco politico, allora il gossip non trovava spazio, i cosiddetti retroscenisti non esistevano, l’informazione era abbastanza paludata, il mio giornale, poi, era decisamente schierato dalla parte di chi in quel momento governava.
Claudio Vitalone era già allora un magistrato abbastanza noto nella Capitale, ed ancor di più lo era il fratello Vilfredo, avvocato, coinvolto anche lui, come sarebbe accaduto anni dopo al germano togato, in qualche pasticcio giudiziario.
La sua notorietà era dovuta al fatto di essere nella ristretta cerchia degli amici di Giulio Andreotti, degli abituali frequentatori dell’ufficio privato del Divo, a San Lorenzo in Lucina, assieme ai vari Franco Evangelisti (il famoso “a ‘Fra, che te serve?” immortalato da Paolo Guzzanti in una memorabile intervista su Repubblica) Giuseppe Ciarrapico, vari cardinali, manager di Stato.
E grazie ad Andreotti, Claudio Vitalone, uno dei tanti “emigrati di lusso” a Roma, era approdato alla politica, a palazzo Madama, prima che una donna già appartenente alla famigerata banda della Magliana lo coinvolgesse nella brutta storia dell’omicidio di Mino Pecorelli. Vitalone era uscito da questa vicenda, ma ne era rimasto segnato nel fisico e, a soli 72 anni, la morte gli ha presentato il conto.
Personaggio discusso, che sapeva comunque muoversi con abilità in quel palazzaccio di Roma chiamato il porto delle nebbie, ma chi lo conosceva bene non esita a lodarne le qualità umane, di persona sempre pronta a dare una mano a chi avesse bisogno, specialmente se era della sua terra, la Calabria che non ha mai smesso d’amare.
Accuse incredibili, mesi e anni trascorsi nelle aule di giustizia, ma dall’altra parte, a difendersi, osservato dalla gabbia da quei mafiosi che spesso aveva fatto condannare. Nella bella autobiografia di Giulio Andreotti scritta da Massimo Franco, c’è una foto di Claudio Vitalone, a Perugia, seduto assieme ad Andreotti, mentre accanto passa, ammanettato, il boss Pippo Calò che li guarda di sottecchi, quasi non volesse farsi notare dalle guardie.
Saranno in tanti, adesso che Claudio Vitalone è morto, a dimenticare quanto di malvagio gli avevano rovesciato addosso, nel momento della bufera, ma è la vita. Quando arriva la fine, tutto si annulla e risolve, per sempre.

28/12/08

LATITANTI, LA "VENDEMMIA" CONTINUA

I giorni di festa, la voglia di famiglia, i contatti con il territorio, la possibilità di riscuotere i soldi delle estorsioni, tutte cose che per i latitanti finiscono col rivelarsi fatali.
La “vendemmia” di ricercati, ad opera della polizia e dei carabinieri, continua nemmeno ad un anno di distanza dalla cattura del boss Pasquale Condello, detto il supremo, per la posizione di vertice occupata nelle gerarchie mafiose.
Pochi giorni sono trascorsi dall’arresto di Giuseppe De Stefano, che aveva preso le redini della famiglia dopo la fine della dorata latitanza dello zio Orazio, ed ecco arrivare quello di Pietro Criaco, la cui foto da undici anni faceva mostra nell’elenco dei latitanti più pericolosi diffuso dal sito internet del ministero dell’Interno.
Uno ad uno prima o poi cadono tutti, niente dura tutta la vita, nel bene e nel male: ci sono i politici a vita, i direttori di giornali a vita, i truffatori in servizio permanente, i ladri di regime sempre attivi, ma anche per loro arriva il momento in cui cala il sipario.
Criaco era tornato nel suo regno per le feste, occasione spesso per regolare dei conti (vedi sparatoria che ha visto vittima un uomo di San Luca emigrato a Torino), il clima lascia pensare a momenti di rilassamento, di allentamento della tensione per chi, come i segugi di Cortese, seguono notte e giorno, sia festa o no, le tracce dei ricercati, gente che per anni è riuscita a farla franca. Ma non è così.
Certamente, senza appoggi e senza grande disponibilità di denaro, non si può restare per tanto tempo nascosti, ma adesso la musica è cambiata, i mezzi anche tecnici ci sono, prima o dopo nella rete qualcuno ci resta.
La cattura di Criaco, con la sua aria da intellettuale, conferma che i grandi latitanti non si allontanano quasi mai dal loro territorio “di competenza”, per il timore di essere scavalcati o addirittura soppiantati da personaggi venuti fuori adesso che i capi, del calibro di Peppe Tiradritto e Condello, sono costretti a lunghe assenze.
L’unica strada, per loro, se vogliono avere la speranza di uscire da quelle mura, è arrendersi allo Stato, diventare collaboratori: nel caso di Criaco e Condello non lo riteniamo possibile, ma non si sa mai, quando attorno a loro sarà creato il vuoto, forse saltare il fosso sarà l’unica soluzione.
Stavolta il brindisi si fa in Questura, in attesa che la “vendemmia” anche per il 2009 sia proficua.

25/12/08

BUON NATALE E FELICE (SE POSSIBILE) ANNO NUOVO

Quando, la scorsa estate, ho deciso di dare vita a un mio blog, anche a seguito delle affettuose insistenze di colleghi ed amici (“fallo, tu ne hai cose da dire”) non pensavo assolutamente che, in così breve tempo, il numero dei visitatori sarebbe cresciuto di giorno in giorno e le modeste mie pagine sarebbero state lette da tante persone.
Sento pertanto il bisogno di ringraziare tutti coloro che, conoscendomi per i miei tanti anni d’attività professionale, nelle varie testate in cui ho lavorato, hanno avuto piacere di continuare a seguirmi, non facendomi mancare, spesso, il loro sostegno e apprezzamento tramite email e telefonate personali.
L’occasione è data dalle festività di Natale e fine anno, per cui formulo a tutti i migliori auguri di serenità familiare, benessere fisico e materiale, insomma un po’ d’ottimismo dopo un 2008 davvero duro.
Sono tra coloro che sostengono la tesi del pensare positivo, della fiducia nel popolo italiano capace sempre di rialzare la testa anche di fronte a gravissime emergenze, quali guerre, terremoti, alluvioni.
Certo, il bilancio, nonostante le chiacchiere dei vari amministratori che convocano i giornalisti per la tradizionale consegna dei doni (quanta gente arriva in queste occasioni!) non è dei più incoraggianti. La Calabria, la provincia reggina in particolare, hanno ben poco da festeggiare, le cose non sono cambiate, come ognuno s’aspettava.
Gli organi di polizia hanno assestato sonore batoste assicurando alla giustizia pericolosi personaggi della criminalità mafiosa, ultimo dei quali il figlio del boss Paolo De Stefano (quello del “ciao, belli” indirizzato a giornalisti e fotografi) sono stati sequestrati beni per miliardi, ma la ‘ndrangheta continua a dominare ed a penetrare sempre più nel tessuto sociale ed economico della città.
L’industria, anche per la ormai accertata inadeguatezza dei responsabili di Confindustria Reggio, procede tra mille difficoltà, così come l’edilizia, mentre sullo sfondo si agitano sempre i soliti personaggi che, negli anni, si sono resi responsabili soltanto di disastri.
La politica?, meglio lasciar perdere, mentre si avvicina la campagna per le Europee: occasione per il recupero di qualche vecchia carcassa, speriamo non sia così.
Ma questi sono giorni di festa, di pace e di perdono, di ricordo degli amici che ci hanno lasciato, da Totò Delfino ad Aldo Sgroy a Ninì Sapone. Li ricordiamo nelle nostre preghiere e speriamo in un 2009 che, come dicono a Napoli, sia meno “fetente” di quello che si sta chiudendo.
Grazie a tutti, di vero cuore, e seguitemi ancora, anche su Strill, la magnifica creatura dell’amico Giusva Branca, che tanti sforzi sta facendo per dare alla città un giornale, anche se solo telematico, che alimenti un sano pluralismo e, soprattutto, serva a non nascondere le notizie che altri preferiscono ignorare.

24/12/08

ADDIO NINI' UN ALTRO AMICO CHE SE N'E' ANDATO

Vigilia di Natale a Roma, ma sembra di stare a Londra: la città è avvolta dalla nebbia e questo accentua il magone che da ieri mi porto dentro, da quando una telefonata del caro collega Rosario Cananzi mi ha avvertito della morte di Ninì Sapone, amico d’una vita, persona di straordinaria generosità.
Il mio rammarico è di non poter essere presente al funerale, il caos che regna a Fiumicino, l’autostrada da bollino rosso, insomma, in questi casi ti rendi conto quanto sia lontana, non solo geograficamente, la nostra Calabria dal resto del Paese.
Sono stato testimone, qualche anno fa, alle seconde nozze di Ninì Sapone con Maria Sorgonà, la donna che ha molto amato e l’ha ripagato di tante amarezze, dopo che la sua unione con Nuccia, che pure gli ha dato due figli, era inesorabilmente naufragata.
Ho vissuto con lui, che spesso veniva a casa mia per mangiare il “soffritto” che mia moglie gli preparava, quei momenti e credo di essergli stato vicino, e non lo ha mai dimenticato.
Alla figlia Adriana teneva moltissimo e ne aveva incoraggiato la passione, quella di diventare una fotoreporter. Ricordo di essermi adoperato con l’allora direttore del “Quotidiano della Calabria”, Pantaleone Sergi, perché questa ragazzina con l’hobby della fotografia, peraltro ereditata dal padre, venisse assunta alla redazione reggina, dove la trovai, nel 2002, durante la mia breve ma bellissima esperienza in quel giornale.
Ninì era noto per la sua passione di presepista, ho in casa un paio dei suoi lavori, e lo vidi veramente felice quando, sempre per mia modesta intercessione, riuscii a farlo invitare e presentare qualche suo capolavoro, ad una trasmissione di Rai2 condotta da Enza Sampò.
Non dimenticava mai gli auguri per il mio onomastico e s’informava costantemente dei miei ragazzi, che conosceva da piccoli e a lui erano molto affezionati, non ho ancora avuto il coraggio di comunicare che Ninì non c’è più al primogenito, che si trova all’estero.
Da qualche anno la sua principale occupazione era costituita dal museo del presepe che aveva creato, con l’appoggio di Maria, donna di grande cultura, sotto casa, in via Filippini, nel cuore del Mercato. Non vedevo Ninì da qualche mese, a Reggio ormai scendo sempre più di rado, ma mia moglie era passata a salutarlo, un mese fa, ed era stato affettuoso, come al solito, aveva chiesto di me, le aveva fatto promettere che, appena possibile, avremmo organizzato un bel pranzo. Ninì, questo impegno non potremo onorarlo, almeno da questa parte del mondo.
Ad Adriana dico di affrontare con serenità questa grande perdita, papà continuerà a seguirla anche da lassù, dove certamente gli avranno riservato un bel posto, da cui inviare qualche foto, di quelle magnifiche che tu, attraverso lui, continuerai a fare, ogni giorno.
Ciao, Ninì, un altro amico, un grande uomo che se n’è andato, sento attorno a me un terribile vuoto.

20/12/08

ALL'"AVANTI" LA CRISI LA PAGA SOLO IL DIRETTORE

Può succedere anche questo, in tempi di crisi, anche per la carta stampata, quella però “assistita” dallo Stato che eroga contributi a testate che, in teoria, dovrebbero essere gestite da cooperative, oppure che sono state recuperate, come è il caso del glorioso Avanti, da fallimenti.
Succede che l’editore, sentendo aria di ridimensionamento delle provvidenze per i quotidiani, cosa che peraltro non è ancora avvenuta, e noi crediamo che non avverrà, altrimenti alcune testate sarebbero condannate a morte, pensa bene di fare qualche “taglio”, una parola assai di moda.
E qual è la prima testa che cade?, quella del direttore, un giovane giornalista napoletano molto capace, Fabio Ranucci, che in questi anni ha guidato la fragile barchetta dell’ex giornale socialista all’insegna del risparmio, con poca gente, facendo un prodotto dignitoso, utilizzando, senza dare loro un euro, anche firme di prestigio.
A Ranucci l’editore, che sembra abbia velleità politiche (è stato candidato per Forza Italia due elezioni fa) ha dato il benservito, ma senza sostituirlo, come sovente accade, con uno che costerebbe meno, oppure perché non più convinto della “linea” data dal direttore al giornale.
Niente di tutto questo: Ranucci è stato licenziato senza preavviso e senza il pagamento, ai sensi del contratto di lavoro giornalistico, di tutte le spettanze. La motivazione offerta dall’editore, il quale dovrà adesso dimostrarlo in Tribunale, è data da presunte difficoltà economiche che verrebbero aggravate dal taglio dei denari governativi di cui si parla da tempo, ma che non sono ancora stati quantificati, né si sa quali testate saranno colpite. Intanto, il giornale lo firma lui editore-direttore foraggiato dallo Stato!
Ma la cosa più grave di tutta questa vicenda è la totale indifferenza del sindacato dei giornalisti, in particolare di Stampa Romana, l’associazione alla quale Ranucci, che l’avvocato comunque lo pagherà di tasca sua, si è rivolto per ottenere, come sarebbe da attendersi, appoggio e quantomeno solidarietà.
Nulla, silenzio totale, nemmeno una noticina di maniera, come si fa in questi casi, la Fnsi, d’accordo, è alle prese con la grana del contratto, ci sono cose più gravi del licenziamento del direttore de l’Avanti.
Da parte nostra, conoscendo Ranucci, più volte commissario agli esami di Stato per i giornalisti, docente all’università di Sora, autore col giudice Izzo d’un pregevole testo per la preparazione dei giovani che intendono affrontare la professione giornalistica, sappiamo che egli sta vivendo questo difficile momento con grande dignità.
Siamo convinti, che pure in un momento tanto difficile, qualcuno si servirà di lui come professionista valido, mentre la giustizia civile farà, con i tempi che tutti conosciamo, il suo corso. A Fabio, fiduciosi che lo facciano anche altri più titolati di noi, la solidarietà umana e l’affetto personale.

19/12/08

QUESTA TANGENTOPOLI NON E' STRACCIONA

Napoli, Pescara, Potenza, e forse presto anche Catanzaro e Reggio Calabria: sono le tappe di quella che già i giornali non hanno esitato nel definire la nuova Tangentopoli italiana che vede, non tanto sorprendentemente, protagonisti politici, affaristi, manager, e purtroppo anche uomini delle Istituzioni.
Ma stavolta i giudici hanno colpito a sinistra, sbattendo in galera e indagando personaggi del partito democratico, tra cui ex comunisti che, solo qualche anno fa, avevano issato la bandiera del giustizialismo. Ora sono i leader del partito di Veltroni a chiedere che, sì, la magistratura faccia il proprio dovere, manifestando per le toghe non più rosse la più grande fiducia, ma nello stesso tempo negando, fino all’inverosimile, anche cose che tanto inverosimili non sono.
Veramente risibili le affermazioni di Renzo Lusetti, col suo muso di topo, che giustifica i contatti con appartenenti al mondo degli appalti e delle tangenti con la sua disponibilità a tenere sempre acceso il telefonino.
Anche lui, come tutti gli altri, compreso il nanetto Bocchino, noto a Napoli per essere dentro tante situazioni di carattere editoriale, negano tutto, dando al significato delle loro telefonate quello di ingenue chiacchierate. Ma non è così, almeno noi crediamo che i magistrati inquirenti non abbiano perso il loro tempo dando rilievo penale a cose che il grande Montanelli, per definirne l’inutilità, diceva che erano “roba da Rotary”.
In questi giorni mi tornano alla mente gli avvenimenti, che ho vissuto personalmente, dal punto di vista professionale, nell’ormai lontano 1992 quando Reggio Calabria, a seguito delle “confessioni” del giovane sindaco pentito Agatino Licandro, Titti per gli amici, venne sconvolta dal turbine di arresti, “avvisi” e perquisizioni. Era quella che io definisco, e credo di non poter essere smentito, la “Tangentopoli stracciona”.
Ma di quello che cominciò una luminosa mattina di settembre, mentre in città si festeggiava la Patrona, vi parlerò in altra occasione, amici lettori che con tanto affetto seguite il mio modesto blog. C’è qualcuno a cui i nostri discorsi risultano alquanto indigesti, ma se ne faccia una ragione e prenda un Alka selzer. A presto.

15/12/08

GIORNALISTA SCOMODO? BECCATI UN CEFFONE

Non posso non essere d’accordo con il segretario nazionale dell’Ordine dei giornalisti, l’amico nonché concittadino Enzo Iacopino che, con decisione, ha preso una posizione netta sul caso del collega napoletano Migliaccio, redattore di E polis, quotidiano gratuito che ormai edita numerose edizioni in quasi tutto il Paese.
Come è ormai noto, il giornalista, convocato nella sede del comando vigili urbani di Napoli, per non meglio precisate “comunicazioni”, è stato proditoriamente schiaffeggiato dal comandante, Luigi Sementa, ex ufficiale dell’Arma. Migliaccio, incassato il ceffone, ha giustamente sporto querela contro il manesco capo dei vigili che non ricordiamo altrettanto duro con i mafiosi nella sua esperienza calabrese da carabiniere.
Del suo passaggio a Reggio Calabria, infatti, non è che sia rimasta una traccia particolarmente importante.
Non sappiamo se la sindachessa Iervolino, che pure è stata ministro dell’Interno, anche lei senza lasciare grandi tracce, abbia preso i provvedimenti invocati da Iacopino e da tutta la categoria, che non ha fatto mancare al collega Migliaccio la solidarietà. In ogni caso, indipendentemente dal fatto specifico, si sia trattato d’un giornalista o d’un comune cittadino, il comportamento violento dell’ex carabiniere non merita alcuna attenuante.
Sementa può benissimo restare in servizio (anche lui tiene famiglia) ma destinato ad incarichi diversi nell’ambito del Comune partenopeo, in un posto dove non debba avere a che fare con giornalisti fastidiosi.
Napoli è una città paragonabile per tanti versi a Reggio Calabria, ma ciò non significa che si debbano tenere nei confronti d’un cronista atteggiamenti simili a quelli usati da Sementa che è stato il successore a Napoli di un altro ex ufficiale dell’Arma, il colonnello Giosuè Candita, valoroso comandante della Compagnia di Taurianova in anni difficili.
Prerogativa del carabiniere, come mi hanno insegnato anni di frequentazione, che ancora continua, con i militari dell’Arma, ed anche per tradizione familiare, è l’uso del buonsenso, che spesso aiuta ad ottenere dal cittadino quella collaborazione necessaria ad avere conoscenza del territorio. Sementa, evidentemente, è uno che esce da questi schemi e crede, che picchiando il giornalista scomodo, si possano risolvere i problemi che, col suo giornale, Migliaccio non ha fatto altro che evidenziare, sottolineando, tra l’altro, le insufficienze del corpo dei vigili fino al momento, ma speriamo ancora per poco, affidato al comando dell’intollerante Sementa.

13/12/08

MAFRICI PRESENTA LA SUA ULTIMA FATICA LETTERARIA

L’appuntamento è per giovedì 18 dicembre nell’esclusivo circolo antico tiro a volo, a piazzale delle Muse, zona Parioli, a Roma. Un reggino, già direttore generale di Confagricoltura, Arcangelo Mafrici, presenta la sua ultima fatica letteraria “Magia del mito greco. La prima notte di nozze di Zeus e di Era durò trecento anni.
Alla presenza dell’autore, e dell’editore, anch’egli reggino, Giuseppe Gangemi, di questa interessante performance di Mafrici parlerà il presidente della Suprema Corte di Cassazione, dottor Vincenzo Carbone. Saranno presenti esponenti di primo piano del mondo artistico, letterario, politico, sindacale, giornalistico, della Capitale, tra cui molti calabresi che frequentano l’associazione Fata Morgana, fondata da Mafrici qualche anno fa, che raccoglie numerosi reggini e di altre città della Calabria che a Roma vivono e lavorano, occupando posti di grande responsabilità e distinguendosi nei campi più diversi, dalla magistratura alla medicina.
Ci stupiamo al ricordo di Eurinome che, venuta al mondo dal Caos, scrive l’autore, non trovò nulla di solido su cui poggiare il piede: e ci stupiamo della bella Afrodite perché nata dalla candida spuma del mare; di Ermes, che proteggeva i ladri e gl’imbroglioni; di Efesto, nato talmente brutto, che la madre lo scaraventò giù dall’Olimpo; della spietata ira di Achille che trascinò più volte, intorno alle mura di Troia, il corpo dell’eroico Ettore ucciso per poi, pietoso, restituirlo alla moglie Andromaca; delle sirene il cui canto ammaliava i navigatori; di Caronte che, nel mondo degli Inferi, pretendeva un obolo per traghettare le anime da una sponda all’altra del fiume Stige; degli alberi i cui frutti facevano vivere la vita a ritroso.
Di tutto questo ci stupiamo, e delle mille e mille altre leggende che gli aedi e i rapsodi recitavano e cantavano presso le corti degli aristocratici, sulle piazze e per le strade della Grecia.

12/12/08

QUEL RAGAZZO BRUNO CHE ACCAREZZAVA IL PALLONE

Il campo sportivo di Pellaro è a pochi passi dal mare. Il terreno di gioco è duro, a tratti sabbioso, il vento sferza i vecchi olmi che qualcuno piantò, anni fa, quando quel rione sonnolento a pochi minuti dalla città, ma così lontano dai ritmi incalzanti del quotidiano, era una piccola repubblica.
Sul quel campo senza erba si allenano due squadre, la Pro Pellaro, che attraversa il suo momento d’oro, e la Libertas, che va avanti a stento, facendo leva sull’entusiasmo del presidente, il professor Aiello, e sulla guida tecnica di “Tuzzo” Battaglia. Il regista di centrocampo è un giovane bruno dal tocco felpato, si chiama Italo, studia all’università, idee di sinistra, vorrebbe fare lo storico.
Ho tra le mani una foto ingiallita, ed eccolo Italo, accanto a Battaglia e altri tre ragazzi che guardano l’obiettivo con aria spavalda, lui è lì col suo sorriso e le braccia conserte. Quanto tempo, Italo, io e gli altri della mia età stavamo dall’altro lato, con i primi in classifica e con aria di sufficienza trattavamo i “parenti poveri” della Libertas cui qualche soldo arrivava dai notabili dc del rione.
Da allora avevi scelto di essere minoranza, perché in fondo lo sei stato tutta la vita, e anche quando il favore popolare, la gente che ancora non dimentica di amarti, decisero di portarti sullo scranno più alto di palazzo San Giorgio restasti sempre tale, dalla parte degli umili, di quelli che parlano sapendo di non avere voce.
Quanto tempo, Italo, da quei giorni ad inseguire un pallone su quel campo gibboso, fino a ritrovarci tu consigliere comunale appena eletto, io giovane cronista alle prese con la difficile esperienza di “fare” l’informazione in una città che di lì a qualche anno sarebbe stata indicata ad esempio di degrado, di centro di corruzione e strapotere della mafia, il buio era calato su Reggio.
E vennero quegli incontri della domenica mattina, quando passavi dal giornale e si parlava di tutto meno che di politica, le cose del tuo partito le tenevi dentro anche con una certa sofferenza, del resto la tua “anomalia” era nota, eri l’uomo del dialogo, del confronto sereno e portavi nei ragionamenti la tua cultura storica, quell’approccio “salveminiano”, ci si passi il termine, che ti faceva vedere la realtà attraverso una lente tutta speciale.
La cultura, osservavamo, non la si compra al mercato, la formazione politica, ed era questo un tuo cruccio, la cosa che già allora (e non avevamo certo la classe politica di adesso) lo angustiava non può essere improvvisata, fatta di slogan.
Poi, il discorso prendeva altre direzioni, e veniva fuori la comune passione per la ricerca storica, lo studio delle radici di questa terra, il pensiero dei grandi uomini che nell’arco dei secoli l’hanno attraversata, tanti di loro sono stati dimenticati. Ricordo che avevamo anche pensato a qualcosa da fare assieme, ma gli impegni suoi e miei (intanto avevamo messo su famiglia) non ce lo avrebbero consentito.
“Vedrai, mi disse, che potremo farlo, ci sarà pure per noi il momento del riposo”.
Per lui è arrivato in un giorno grigio di dicembre l’appuntamento con la signora vestita di nero con in mano quella falce che, come disse il Poeta, “pareggia tutte le erbe del prato”.
Quanto tempo avremmo avuto, Italo, da dedicare alla nostra amata storia, so che tu ne parlavi coi figli, che hai cercato, come cerco di fare io, di inculcare dentro di loro la passione per questa disciplina fondamentale nella formazione dei giovani, e chissà quanto bisogno ce n’è in questo mondo che dimentica i valori, cancella le tracce del passato, non apre alle nuove generazioni le porte della speranza.
Tu volevi farlo e l’hai fatto finchè hai potuto, da docente, da politico, da guida illuminata d’una Reggio ripulita dalle macerie accatastate da una classe di governanti avidi e incapaci, solo poche stelle hanno brillato in un firmamento scuro come un antro dell’Inferno dantesco. Ora attorno a te è il silenzio, dovunque tu sia, ne sono certo, ti vedranno incedere col tuo passo elegante, silenzioso, come quando accompagnavi, con lancio perfetto, il pallone verso il compagno in attesa.
Ci saranno giorni e giorni, ma il tuo ricordo resta incancellabile anche in coloro i quali, e io sono tra quelli, che lavorando altrove, non ti hanno seguito nel cammino di primo cittadino conosciuto in tutto il Paese e additato ad esempio, capace di rispondere con un sorriso agli attacchi più feroci e di trovare il coraggio di dire tutto alla gente, anche quando non era piacevole, come dare l’annuncio della malattia, che vile agguato del destino, caro Italo.
Guardo questa foto e un brivido mi percorre la schiena, ma dentro di me si fa forza la speranza che non tutto è finito, che quel discorso interrotto lo riprenderemo. Ne sono sicuro.

09/12/08

CATANZARO, E' ARRIVATA LA BUFERA

A Catanzaro non passa giorno che non soffi il vento, sia inverno o estate. Un vento gelido spazza la strana piazza che s’apre davanti al vecchio palazzo di giustizia che, fino a non molti anni fa, era a pochi metri dal carcere e dall’albergo Moderno, ora trasformato in banca.
E’ in quelle stanze che soggiornavano i boss di Cosa Nostra liberi e i parenti di quelli detenuti mentre si celebrava il processo che vedeva alla sbarra, tra gli altri, personaggi come Angelo La Barbera e Frank Coppola detto tre dita.
Per tutti, secondo la migliore tradizione dell’epoca, arrivò l’assoluzione e la sera, al Moderno e nelle trattorie dove si cucinava il “morsello” fu festa grande, da Reggio arrivarono personaggi tipo don Ciccio Canale, detto “u gnuri”, per il suo aspetto da gentiluomo di campagna.
Il vento sbatte contro le finestre stile piacentiniano della Procura dove, nei giorni scorsi, un allibito procuratore generale e un altrettanto meravigliato procuratore capo, del resto in servizio lì da pochi giorni, si sono visti consegnare un malloppo di quasi duemila pagine, un decreto di sequestro così corposo non s’era mai visto, preparato dai “colleghi” di Salerno che hanno raccolto le denunce di Luigi de Magistris, cacciato come un reprobo da Catanzaro e rimandato nella sua Napoli con il divieto di fare il pm investigatore, di non rompere più le scatole, insomma, con le sue inchieste.
Come finirà questa brutta storia Dio solo lo sa, ma il danno d’immagine che tutta la magistratura, e quella catanzarese in particolare, hanno subito, è incalcolabile, mentre l’opinione pubblica non capisce bene cosa sia successo anche perché nessuno l’ha spiegato. Ci sono indagini ancora coperte da segreto, una caterva d’indagati, tra cui parecchi giornalisti, la seria prospettiva che tutto vada a carte quarantotto e si finisca con il nascondere, dietro un grosso polverone, le magagne che un gruppo di massoni, affaristi, politici di professione, magistrati distratti (?) hanno combinato in questi anni che, per la Calabria, governata malissimo, sono stati drammatici.
Dopo tutto, ai calabresi poco importa di questo scontro tra Procure, delle perquisizioni di prima mattina come si fa in casa dei delinquenti, dell’indignazione del presidente della repubblica, affari loro, sti cazzi di magistrati pensassero a mettere dentro il maggior numero di mafiosi possibile, di fare inchieste nella pubblica amministrazione dove le mazzette, a quanto pare, hanno ripreso a girare.
Non sarebbe meglio, a questo punto, una salutare “purga” in quegli uffici giudiziari molto inquinati, per usare un eufemismo, allontanando (in Italia, si sa, non si licenzia nessuno) coloro che hanno dimostrato di pensare più alle lotte intestine che a scrivere sentenze?.
Forse qualcosa accadrà, sempre che gli incappucciati che s’annidato in ogni struttura statale, non entrino in azione. Ricordo la confessione che anni fa mi fece un questore venuto dal Nord a Catanzaro, dove in quel periodo mi trovavo in “soggiorno obbligato” professionale. Quasi scoraggiato, mi rivelò che nella città dei tre colli aveva trovato più logge massoniche che a Milano. Mi dicono che, col tempo, il numero sia cresciuto.

05/12/08

LUXURIA AD "ANNOZERO" SPETTACOLO PENOSO

Seguo raramente, e con qualche difficoltà, la trasmissione Annozero di Santoro che, negli ultimi tempi, sentendo evidentemente puzza di bruciato, assume un atteggiamento buonista, preferendo, come ha fatto con Celentano, far prendere, come s’usa dire dalle nostre parti, il fuoco con le mani degli altri.
Ma ho provato veramente un senso di disgusto quando il noto(anche alle questure) trans gender Pasquale Guadagno, in arte Vladimir Luxuria, ha letteralmente aggredito la collega Norma Rangeri, una delle critiche televisive più apprezzate e che lavora per un giornale, il Manifesto, che all’ex (per fortuna) deputato di Rifondazione non dovrebbe sembrare nemico.
La colpa della Rangeri sarebbe stata, ad avviso di Luxuria, che ha potuto smettere di prostituirsi, come da lei stessa (o stesso?) dichiarato, grazie all’elezione in Parlamento, quella di averla definita, a seguito dei comportamenti tenuti sull’Isola dei famosi, “donnetta da ballatoio”.
Una critica, questa della collega Rangeri, che ho condiviso in pieno, io al suo posto sarei stato molto più duro nei confronti di questo personaggio che, lautamente retribuito, ha partecipato al reality che io seguo (ebbene, sì) su Sky, che ritrasmette tutte le puntate in orari diversi.
Non ci rendiamo conto di come gli italiani che l’hanno votata non si siano accorti che dal primo giorno ha assunto atteggiamenti quantomeno ipocriti, palesemente falsi nei rapporti, cattivi nei giudizi, spietati nel tentare di eliminare quelli che, a suo giudizio, avrebbero potuto insidiare il suo pacco di euro.
Adesso, i suoi ex compagni di partito, che dopo il tracollo elettorale, come ammesso dalla stessa Luxuria, l’avevano scaricata, l’hanno trasformata in una icona della sinistra, proponendole di candidarsi alle Europee, nel tentativo di raccattare un po’ di voti che, a mio avviso, comunque, non serviranno ad evitare ai compagni di Rc una nuova batosta.
Paragonare la vittoria del travestito foggiano a quella di Obama, come segnale epocale di cambiamento della politica, mi sembra una cosa tanto assurda quanto disgustosa. Con certi simboli che si sta cercando di rispolverare, gli orfani di Bertinotti, guidati dall’integralista Ferrero e dal gay dichiarato Vendola, non andranno molto lontano.

02/12/08

LA TELEFONATA CHE NON POTRO' PIU' FARE

Pomeriggio piovoso a Roma, è da tre giorni che va avanti così. Per vincere la noia, si fa zapping: a canale 5 c’è la trasmissione condotta da Barbara D’Urso e in studio c’è Walter Nudo, il vincitore della prima edizione dell’Isola dei famosi.
Sto per cambiare canale, quando la soubrette napoletana annuncia un collegamento con Maria Scicolone, sorella di Sofia Loren, nota per le sue frequenti apparizioni in tv nella qualità di cuoca. Le sorelle Scicolone sono nate a Pozzuoli, che era il luogo natale di mia madre, che ho perso pochi mesi fa.
A Pozzuoli ho trascorso nell’infanzia e nell’adolescenza, in casa dei nonni, affacciata sul golfo di Napoli, momenti bellissimi, per cui quando sul video appaiono le immagini della casa paterna della diva del cinema che mia madre aveva visto crescere sgambettante nei vicoli della Pozzuoli pre terremoto, sento un tuffo al cuore.
Tante volte la mamma mi ha telefonato, quando c’era qualcosa in televisione che riguardava la “sua” Pozzuoli, e ne approfittava per raccontarmi qualche aneddoto, lei che la mamma delle sorelle Scicolone la conosceva, sapeva della vita difficile d’una donna bella, romantica, ma che all’epoca, essendo una separata, veniva additata come una poco di buono.
In casa, come ha ricordato l’altra sera alla D’Urso la stessa Maria, la carne era merce rara, Sofia ha mangiato tanta, ma tanta frittata.
Il primo impulso, appena ho visto le immagini di Pozzuoli, è stato quello di prendere il telefono e chiamare la mamma, ma questa telefonata non ho potuto, né potrò più farla, mai più.

27/11/08

NON DIMENTICHERO' LA LEZIONE DEL MAESTRO BIAGI

La notizia del mancato riconoscimento ad Enzo Biagi, il prestigioso Ambrogino d'oro, da parte del Comune di Milano, nonostante l'iniziativa fosse stata del sindaco Letizia Moratti, mi ha oltremodo amareggiato.
E mi ha riportato alla memoria quanto lo stesso Biagi, qualche anno fa, quando ho avuto l'onore di collaborare con lui per la serie "La cronaca in diretta", ebbe a dirmi a proposito del giornalismo scomodo e della sua naturale ritrosia nell'accettare premi e premiucci per cui l'Italia vanta certamente il primato.
Il Maestro -che si faceva grasse risate quando lo apostrofavo col titolo (che aveva rifiutato) di commendatore -aveva una sua filosofia, lui che, da emiliano, si era milanesizzato e, dopo tutto, amava la città della Madonnina. Sapeva benissimo che il suo modo di fare giornalismo, senza timori reverenziali, senza essere ossequioso verso i poteri forti, con un senso d'indifferenza nei confronti della politica, non poteva che renderlo inviso a chi non è abituato ad essere "disturbato" da un'informazione fuori dal coro.
E a me che gli manifestavo i miei sentimenti d'insofferenza verso i politici della mia città, proprio nei giorni in cui era esplosa quella specie di Tangentopoli stracciona, rispose con tono paterno.
"Meglio correre da solista che stare da anonimo nel gruppo, e tu non hai l'aria di chi s'accuccia ai piedi del potere".
Tante volte in questi anni ho ripensato a queste parole del grande Enzo che, affettuosamente, quando lo chiamavo in occasione di ricorrenze, scherzando mi domandava se mi ero "iscritto alla 'ndrangheta". Alla mia risposta, ovviamente negativa, facendo finta anche di agitarmi, lui, serafico, rispondeva:"Allora, non diventerai mai qualcuno che conta".
L'Ambrogino d'oro, così come a Reggio Calabria il Sangiorgino, sono onorificenze ambite, anche se a decidere chi le meriti o meno in genere sono gli amministratori pro tempore. E non sempre le scelte sono le migliori. Biagi continua a stare sullo stomaco anche da morto, ma questo gli fa onore, anche se a me ed ai suoi tanti "figli" provoca un senso di rabbia e sgomento. La sua lezione, però, non la dimenticherò mai.

24/11/08

L'ULTIMO SALUTO AD ALDO SGROY

Un pensiero per ricordare Aldo Sgroy il giorno dopo il suo funerale al quale non ho potuto prendere parte, come avrei voluto. Chi mi segue sa che da tempo mi sono praticamente trasferito a Roma e, dopo la morte della cara mamma, avvenuta a fine giugno, le mie visite a Reggio, che prima avevano quasi cadenza settimanale, si sono diradate.
Nella Capitale, anche da pensionato (benestante, chiosa un amico che ama punzecchiarmi) continuo la mia attività giornalistica.
Del resto, il nostro mestiere, come quelli di medico, avvocato, ingegnere, intellettuali in genere, non prevede, almeno finchè il cervello funziona, di mettersi completamente a riposo. Oltre al mio blog personale, alla collaborazione col quotidiano on line Strill e il mensile cattolico Messaggero di Sant'Antonio, partecipo attivamente alla vita della corrente sindacale che fa capo agli amici Enzo Jacopino e Francesco Gerace.
Caro Aldo, quando nelle tenebre sarà soffocata ogni luce, non si estingua la fiamma della fede, ma illumini la nostra notte. Buon riposo.

23/11/08

CIAO "ZIO" ALDO, CI MANCHERAI TANTISSIMO

Quando un collega, ma soprattutto un amico, qual era per me Aldo Sgroy, e per tanti altri della generazione di giornalisti che accanto a lui si sono formati, ci lascia, sentiamo che, inesorabilmente, un’epoca si sta chiudendo.
Aldo, per tutti era lo zio, il maestro per definizione, un uomo che era stato costretto a lasciare la “sua” Messina e trasferirsi a Reggio quando Lodovico Ligato aveva lasciato la redazione reggina di Gazzetta per candidarsi alla Regione, seguendo il sogno di fare politica, che lo accompagnava dagli anni della gioventù.
Eravamo un gruppo di ragazzi col pallino del giornalismo. Io ero da qualche anno alla Tribuna del Mezzogiorno, nella redazione guidata dal vulcanico Ugo Sardella, con un caro collega come Pino Barilà che mi faceva da chioccia.
Aldo decise di trasferirsi quasi immediatamente dall’altro lato dello Stretto e per tanti anni guidò la redazione cittadina del quotidiano messinese distinguendosi per la sobrietà, la capacità di gestire momenti difficili per Reggio, specialmente durante la rivolta per il capoluogo. Zio Aldo fu un punto di riferimento importante per chi veniva da fuori e voleva veramente comprendere lo spirito di una autentica sollevazione di popolo cui si volle ad ogni costo affibbiare l’etichetta fascista.
Ad Aldo devo gratitudine, sia per l’amicizia sincera che in ogni occasione mi dimostrò, che per la possibilità di raccogliere, nell’85 il testimone alla Gazzetta, che lui lasciava per la meritata pensione, dopo aver superato un difficilissimo momento: in un incidente stradale era rimasto gravemente ferito l’adorato figlio minore Salvo, morto dopo una lunga agonia.
Nell’organico si liberò il posto che fui chiamato ad occupare e, dopo tre anni a Messina, addirittura venire a lavorare in quella che era stata la sua redazione. Memorabili i suoi “confronti” dialettici con il povero Malafarina, quando Aldo, sempre col tono del buon padre di famiglia, gli rimproverava le sue lunghe pause tra una sigaretta e l’altra, fumata fuori dal giornale. Le sue giustificazioni erano puerili, ma Aldo fingeva di crederci.
Impegnato come amministratore del nostro istituto di previdenza, era a disposizione dei colleghi per qualsiasi necessità, sempre prodigo di consigli, sempre lontano dalle polemiche e dai litigi che, in ogni categoria, e specialmente in quella dei giornalisti, non mancano.
Aldo carissimo, dopo Gigi, dopo Saverio, dopo Ugo, dopo Paolo, dopo Michelangelo, dopo Enzo, l’elenco dei colleghi fraterni che mi hanno prematuramente abbandonato, ora te ne sei andato anche tu. Che la terra sia lieve e da lassù, se puoi, proteggi chi ti ha voluto bene.

19/11/08

PERSONALE DI AMORESE ALLA GALLERIA MONOGRAMMA






INAUGURAZIONE
Venerdì 5 Dicembre 2008 ore 18.30

Giuseppe Amorese
“Ogni cosa è la propria assenza”

“… Il percorso indicato da Giuseppe Amorese è problematico, difficile, ma unico, ed esclude qualsiasi altra possibilità. Vuol dire ri-programmazione dei percorsi intellettivi della mente umana a partire da nuovi orizzonti e verso nuovi traguardi. Campiture monocrome che si infittiscono e si diradano, trasudano quasi, per diventare la scenografia perfetta di una nuova figurazione, in cui soggetti umanoidi, animali e vegetali si pongono in primo piano con le loro illusioni e le loro contraddizioni: una provocazione nell’era tecno mediatica, per dare misura alle emozioni e ri-vivere la fisicità attraverso la figura e il colore. .....Il lavoro artistico di Giuseppe Amorese è caratterizzato dal rapporto inestricabile che lega i problemi esistenziali con la loro manifestazione artistica, mediante il puntiglioso impegno a restituire forme e colori da cui traspare l’ansia silenziosa e responsabile del vivere. Come l’artista stesso dice, “l’Opera non è, e non sarà mai presente,” ma oltre il significato stesso ed ogni spazio per essere ovunque."
Testo a catalogo di Gerardo Amato
Monogramma Arte Contemporanea
Via Margutta, 57 00187 Roma
tel. 06 32650297 Fax 06 32655574

Ufficio Stampa Gianluca Morabito 348 0537611

La mostra resterà aperta fino al 7 Gennaio 2009 con i seguenti orari :
tutti i giorni escluso i festivi, dalle ore 10.00 alle ore 13.00 e dalle ore 16.00 alle ore 19.30

www.monogramma.it

17/11/08

SANTO SPIRITO IN SASSIA, LA CHIESA DEI MIRACOLI

E’ a pochi passi da San Pietro, eppure, fino a qualche mese fa, neppure i romani erano in molti a conoscere la chiesa barocca di Santo Spirito in Sassia, che deve la sua improvvisa notorietà ad un matrimonio, quello tra il play boy Flavio Briatore e la soubrette calabrese Elisabetta Gregoraci.
Eppure, questo luogo sacro è meta di continui pellegrinaggi, ogni giorno, come ha scritto la collega Franca Giansoldati sull’edizione romana del Corriere della Sera, si mescolano italiani e stranieri, ricchi e poveri, potenti e umili.
Compresi parecchi cosiddetti vip, ultimo dei quali il presidente della Camera Gianfranco Fini che in questa chiesa che papa Wojtyla volle consacrare alla Divina Misericordia, ha fatto battezzare la sua seconda figlia, Carolina.
Sotto la gigantografia del Cristo con la veste bianca, dal cui cuore partono fasci di luce colorata, ogni giorno si ritrovano centinaia di persone. A Santo Spirito in Sassia non si vuole parlare di miracoli, eppure le grazie ottenute sono tantissime, basta osservare la sfilza di rosari appesi sul lato destro dell’altare. Una parete piena di ex voto e coroncine lasciati da anonimi fedeli che hanno ottenuto ciò che volevano, sorretti dalla fede e dalla preghiera.
Qui si sono sposati, oltre ai noti Briatore-Gregoraci, anche di recente la giornalista Benedetta Geronzi, del Tg5, figlia del noto banchiere. Il rettore della chiesa, monsignor Jozef Bart, indica una cappella in cui si trova l’immagine del Cristo sorridente, ordinata dalla suora polacca Faustina Kowalska, morta nel 1938 e canonizzata da Papa Giovanni Paolo secondo.
Per dare un’idea della moltitudine di fedeli che qui arrivano ogni giorno, basterà ricordare che, prima che la chiesa fosse “scoperta” anche dai romani, bastavano mille candele l’anno, ora se ne comprano centomila.
Tante donne sono riuscite a diventare mamme, tante coppie si sono riunite, tanti giovani sono usciti dal tunnel della droga dopo aver recitato il Rosario davanti al Cristo sorridente.
Qui ha deciso di sposarsi Carmen, la figlia di un carissimo amico, Peppino Galatà, generale dell’Arma, che in Calabria ha lavorato tanti anni . Per me sarà l’occasione di poter pregare anch’io in questo luogo mistico che odora di santità.

14/11/08

GRAZIE ALLA JUVE, COL GENOA CI HA VENDICATI


Commento di un tifoso della Reggina, ottimista oltre ogni limite, dopo i quattro gol rimediati a Torino dal Genoa che, pochi giorni fa, il poker lo aveva fatto con la Reggina: "Visto che anche noi possiamo farcela, il campionato è lungo e non ci sono squadre nettamente superiori agli amaranto, tranne le cinque-sei che lottano per lo scudetto".
Commento del tifoso inguaribilmente pessimista, ma anche un pò scaramatico, dato che sono alcuni anni che le sue previsioni degne di Cassandra vengono puntualmente smentite dai fatti: " Quest'anno è dura, se tra Udine e in casa con l'Atalanta non facciamo almeno quattro punti, siamo fritti".
Ora le cose sono due: o il Genoa in casa è quasi imbattibile, mentre lontano da Marassi diventa un pò pecora e si lascia...mangiare, o questa Juve lo scudetto può già cominciare a farselo attaccare sulle magliette.
Ma torniamo alla nostra squadra del cuore che, in Coppa Italia, con il finale che ha messo a dura prova le coronarie dei tifosi, non ha dimostrato, anche se la formazione contava numerose assenze, quell'animus pugnandi che lo scorso anno la rese protagonista d'una straordinaria impresa.
Certo, in panchina non c'è più il vulcanico Mazzarri che riusciva a trasmettere ai suoi giocatori quella carica di adrenalina che si traduceva sul campo in assalti alla baionetta degni d'un plotone di bersaglieri. Orlandi, vestito come un lord inglese, ci sembra un osservatore distaccato, non si agita, non urla, non strapazza qualcuno che batte la fiacca, un mister che vedremmo bene sulla panchina d'una squadra d'oltre Manica.
Forse i risultati gli daranno ragione, prima o poi, il suo metodo funzionerà, ma intanto siamo malinconicamente lì in fondo. Ci consoliamo con le provocazioni di Baccillieri dai microfoni di Radio Touring ( per la verità, a me emigrato di lusso a Roma, comincia a mancare) ripetendo la sua massima che ha fatto storia: "Tranquilli, tanto Foti tri chiù fissa i nui i trova sempre".
Che qualcuno, in alto, lo ascolti. Amen.

11/11/08

QUEL PASTICCIACCIO BRUTTO DELL' ALITALIA


L'aeroporto di Fiumicino, in questi giorni, somiglia più ad una bolgia dell'Inferno dantesco che ad uno scalo aereo internazionale con migliaia di passeggeri, immagini di comitive multicolori e multirazziali, insomma ciò che è sempre stato quello che ormai quasi nessuno chiama più l'aeroporto dell'Urbe.
Riuscire a raggiungere la Capitale è come vincere il Superenalotto, il malumore della gente cresce e nessuno di coloro che questa "guerra" stanno combattendo contro chi dovrebbe condurre in salvo la navicella dell'Alitalia in procinto di affondare, sembra preoccuparsi più di tanto.
Le rivoluzioni, nel nostro Paese, ed anche altrove, nessuno è riuscito a farle senza pagare un prezzo a volte pesantissimo. C'è nell'opinione pubblica, bersagliata da un'informazione h 24, la consapevolezza che lo scontro tra i piloti e le altre categorie di lavoratori autonomi che rifiutano l'accordo con la nuova società, finirà con il concludersi non senza spargimento di sangue. Questo rischio, i responsabili della "guerriglia" sindacale in corso, lo hanno calcolato?. Se non lo hanno fatto, allora dobbiamo dichiararci d'accordo con quelli che prevedono un autentico disastro per centinaia di famiglie.
Alitalia, un tempo la compagnia di bandiera per eccellenza, paga i ritardi, gli errori, le sottovalutazioni di chi, in questi anni, con un Governo o con l'altro, ha fatto finta di non accorgersi di quanto stava accadendo. Se, anche faticosamente, si è messa assieme una cordata che, dopo tanti tagli, promette migliaia di nuovi posti di lavoro, diamole il tempo di far....decollare il suo progetto. Gli estremismi non sempre si rivelano positivi, quando sarebbe auspicabile un sereno negoziato. Avere l'opinione pubblica e la gran parte della stampa contro, non giova all'immagine della classe dei piloti e dell'altro personale ancora ostinati nel proporre un muro contro muro con chi, ovviamente, rifiuta il confronto e punta a trattare quando, prima o poi, si romperà il fronte degli oltranzisti. E chi ci rimette in tutto questo gran casotto, se non il viaggiatore, l'utente che, su certe tratte, paga somme rilevanti per un servizio che è l'ombra di quello che, solo qualche anno fa, Alitalia assicurava.

08/11/08

GIOVANNI MORABITO, DA REGGIO A VIA MARGUTTA



Metti una tiepida sera di Novembre in via Margutta, una tipica nottata romana, con le sue luci, le sue feste, gli eventi mondani. L’occasione è data dall’inaugurazione della mostra, nella galleria “Monogramma”, di un artista lombardo, Ottavio Fabbri, che, stando a quanto ne hanno scritto critici d’arte di grande spessore, sembra venire dallo spazio.
Il titolare della galleria, nella strada degli artisti, un tempo frequentata da Guttuso, Rosai, Novella Parigini, e tanti altri, è un reggino, Giovanni Morabito, altro “emigrato di lusso” nella Capitale dove si è trasferito ormai da tredici anni.
A Reggio, Giovanni Morabito è stato animatore d’iniziative artistiche di grande livello, la sua galleria in via Aschenez è stata la meta di pittori e scultori notissimi: Giovanni è stato anche un antesignano delle aste televisive, da una emittente locale. Poi, il salto a Roma, la grande avventura, la rapida affermazione in un mondo per lui pressoché sconosciuto. E venerdì sera ne abbiamo avuto la conferma al vernissage di Fabbri, con presenze importanti del mondo artistico, intellettuale, imprenditoriale, della Roma che conta, insomma.
C’eravamo anche noi, assieme a Renzo Arbore, Elsa Martinelli, il principe di tutte le feste romane, Carlo Giovannelli, Marta Marzotto, belle signore, rappresentanti della stampa, tanti fotografi a caccia di personaggi.
Ottavio Fabbri vanta uno straordinario curriculum, ha portato le sue opere in tutto il mondo. “Ho già visto i dipinti di Fabbri nello spazio” ha detto Buzz Aldrin, componente l’equipaggio della missione Apollo 11 sulla luna.
E Federico Zeri ha esclamato: “Violenti, quasi arroventati, i colori ardono con l’intensità dei simboli, con l’aggressività di un esplosivo microcosmo”.
E l’artista, di fronte ai tanti ammiratori nella galleria di un reggino che fa onore alla sua città, commenta:” Siamo fatti di polvere, ma è polvere di stelle”.
Ma Giovanni Morabito non si ferma qui, tra giorni inaugurerà all’istituto italiano di cultura a Londra una collettiva degli artisti Giuseppe Amorese, Enrica Capone, Vincenzo Ceccato, Luigi Menichelli, la reggina Angela Pellicanò, e Paolo Viterbini.
Coadiuvato dal figlio Gianluca, promettente giornalista, che gli cura l’ufficio stampa, il gallerista reggino organizzerà anche quest’anno “Mille bambini a Via Margutta”, evento di beneficenza che ha come madrina Maria Grazia Cucinotta.

05/11/08

PROCURA DISTRETTUALE, CAMBIA LA MUSICA


Forse è la volta buona che alla Procura distrettuale antimafia si cominci a fare sul serio. Leggendo l'intervista che il procuratore Pignatone, cui sono state rivolte critiche non tanto larvate per la presunta "palermizzazione" dell'importante ufficio giudiziario, ha rilasciato al Quotidiano, si ha la netta sensazione di una chiusura netta col passato.

Insomma, la Procura dei veleni, dei corvi sempre svolazzanti, delle talpe mai individuate, sta per subire una radicale trasformazione, con tanti nomi nuovi e una guida sicura che porta con sè la preziosa esperienza maturata a Palermo, dopo la stagione delle stragi.

Certamente, le forze nuove che s'innestano su un tessuto già di per sè solido, dovranno maturare la necessaria esperienza, ma le prospettive ci sembrano buone. Pignatone punta a creare una squadra motivata, intercambiabile, che lavori, come si dice, in pool, con quello scambio continuo d'informazioni necessario per mandare avanti le inchieste, evitando i personalismi del passato.

Cambia la musica nelle stanze del Cedir delle tangenti, nuovi personaggi compaiono sulla scena di una battaglia che si preannuncia dura, visto che lo stesso procuratore ha parlato di un continuo accumulo di fascicoli.

Segno, questo, che le indagini della polizia giudiziaria approdano a rapporti da valutare, prima dalla Procura e poi dall'ufficio dei Gip, una struttura, questa, che deve essere assolutamente potenziata, non potendosi contare sullo spirito di sacrificio dei "soliti" esponendoli ovviamente a rischi notevoli.

Su una cosa Pignatone tace: i rapporti con i Servizi dove è annunciato un arrivo importante, anche questo da Palermo, anche se si tratta di un ufficiale che a Reggio ha lavorato benissimo, con straordinari risultati, il colonnello Antonio Fiano, che stando a quanto si dice nella Capitale, dovrebbe ricoprire il ruolo di responsabile del Sismi, il servizio segreto militare.

S'annunciano tempi duri per le cosche e i loro referenti, spesso nascosti nelle pieghe della politica, della burocrazia, degli apparati regionali. Presto dovremmo vedere i primi risultati.

02/11/08

PEPPE SHOW STAVOLTA HA FATTO FIASCO


La terribile gaffe commessa dal sindaco-giovane ex ultrà, ex curvaiolo, nel dopo partita di Reggina-Inter, ha fatto, come si suol dire, cadere la faccia a chi, come me ma come tanti altri residenti fuori regione, segue con affetto le vicende della compagine amaranto.
Vogliamo dare a Peppe show (ma stavolta lo spettacolo è andato male) ogni attenuante possibile, dato che, dall'alto della tribuna dei cosiddetti vip non avrebbe visto bene la scena, ma crediamo che il primo cittadino d'una città importante del Mezzogiorno, che forse meriterebbe altro genere di amministratori (ma non vogliamo buttarla in politica) dovrebbe evitare certi atteggiamenti che, di fronte al Paese, non lo qualificano certamente.
Il povero Mourinho, noi crediamo, si sarebbe ben guardato dall'allungare una monetina, come si farebbe con un mendicante qualsiasi, al povero ragazzo estasiato dal vedersi passare accanto cotanto personaggio del mondo calcistico.
Il trainer nerazzurro, che può risultare anche antipatico per il suo modo di porsi, anche nelle interviste, si è privato di un ricordo personale, dono della moglie, pensando di fare cosa gradita ad una persona sfortunata al quale auguriamo che la madonna di Fatima si ricordi di lui. Tutto si è risolto con la solita formula dell'equivoco, resta la figura di....m. fatta dalla città intera che Peppe l'amico di tutti rappresenta. Io, di fronte ad amici romani, alcuni dei quali reggini e calabresi, oltre all'onta della immeritata sconfitta, ho dovuto subire una vera e propria mortificazione causa il gesto improvvido di Scopelliti. Che Dio salvi la Reggina!.

31/10/08

UNA GOCCIA DI POESIA CHE FA BENE AL CUORE

IL BUIO RIMANE IMMOBILE
SOPRA DI ME,
LEGGERO COME UN CIELO D'ESTATE,
MI NASCONDO DENTRO
E ASPETTO QUALCOSA O QUALCUNO
SENZA UN NOME,
SENZA IMMAGINE,
QUALCUNO CHE SI CONFONDE
CON DESIDERI IMPOSSIBILI,
CHE MI ATTRAVERSANO
COME FANTASIE,
COME SOGNI A CUORE APERTO.

29/10/08

IL MIO "INCONTRO" CON LA VENERABILE CARLA

Torre Pedrera è un luogo di villeggiatura, lungo la splendida riviera adriatica, in provincia di Rimini, un posto che d’estate, è la meta preferita dei turisti tedeschi, e anche di tante comitive che, da ogni parte d’Italia accorrono, ma non per gustarsi sole e mare.
Sono i pellegrini che vanno a pregare sulla tomba di una donna in odore di santità, che si chiamava Carla Ronci, nata a Rimini l’11 aprile del 1936, e che diede l’addio alla terra il 2 aprile del 1970, era una luminosa giornata di primavera.
Ho davanti la sua foto, inviatami da una coppia di cari amici, Angiolina e Giuliano Parmeggiani, conosciuti qualche anno fa ad Ischia, e con i quali abbiamo stabilito un rapporto di grande affetto e di condivisione delle idee sulla religione, sulla solidarietà, insomma sul modo che abbiamo in comune di concepire la vita di chi è davvero cristiano.
Questa che voglio raccontare agli affezionati lettori del mio blog, è la storia d’una di quelle ragazze in cui, alla bellezza fisica ed ai doni della natura, la ricchezza della grazia e i carismi dello Spirito, si unirono con tanta spontaneità e consonanza, da non lasciare adito a capire dove il naturale finisse e dove il soprannaturale iniziasse.
Il 1950 fu l’anno della sua conversione: da allora, questa giovanissima bellezza romagnola, che vedo in foto a bordo d’una Vespa, con una sciarpa rossa svolazzante, non si propose di fare altro che rispettare la volontà di Dio. Ora s’impegnava nelle opere di carità, ora si metteva a disposizione di chi aveva bisogno, ora sacrificandosi in un’intensa azione di apostolato.
E lo fece nella parrocchia, dove dal 1993 il suo corpo venerato riposa, tra le giovani, le fanciulle, i bambini, i giovani e gli uomini adulti. Arrivò al punto di offrire i suoi meravigliosi occhi scuri, solo che i genitori d’una bimba cieca l’avessero permesso, per restituirle la vista.
“Bastava esserle vicini per sentirsi più buoni”, raccontano le amiche degli anni giovanili, “da lei scaturiva un desiderio di cielo e purezza, attraverso le sue parole dolci, sicure, rasseneratrici. Faceva sentire che la sua gioia scaturiva dal possesso di Dio e che sentiva il bisogno di comunicare anche agli altri”.
Lei stessa, ad un’amica, così scriveva: “Penso che non sia necessario dirti la mia gioia, la pace e la serenità che possiedo. So di essere sposa di un Dio crocifisso e nulla mi spaventa né mi sorprende”.
Nel 1956, appena ventenne, annotava sul suo diario: “Il desiderio di amare Gesù lo sento tanto forte in me, che è un tormento continuo”.
Ma un male inesorabile era in agguato, il suo corpo martoriato ma dentro sentiva che Gesù l’aveva associata alla sua Passione. E, sul punto di spirare, illuminandosi in volto, trovò la forza di dire al sacerdote che l’assisteva:”Ecco, Gesù sta venendo a prendermi, mi sorride, arrivederci in cielo”.
Adesso, c’è chi vede in Carla Ronci una santa, che si batte perché la Chiesa avvii il processo di beatificazione, è nato un movimento, c’è un sito internet, attivamente impegnata è una signora di Ravenna, Graziella Goti, che raccoglie le testimonianze di chi, dall’incontro spirituale con Carla Ronci ha avuto il beneficio della grazia.
Torre Pedrera è un’altra tappa del cammino della Fede, anch’io spero d’andarci presto.
Voglio chiudere questo mio “incontro” con la venerabile Carla con una sua frase: “Sono contenta di tutto ciò che mi circonda, perché in tutte le cose scorgo un dono di Dio”.

28/10/08

ZANIN, IL FOTOGRAFO CHE CATTURA EMOZIONI

E’ lo sguardo di un uomo che racconta la vita nel suo scorrere, quello con cui Marcello Zanin ferma i personaggi di quella che oggi sembra una storia lontana, ma che invece racconta le radici profonde di ogni cittadino veneto.
Così Germana Urbani presenta il fotografo di Montegrotto, centro termale a pochi chilometri dalla più nota Abano, che in questi giorni sta tenendo la sua prima mostra nei locali d’una enoteca dove i visitatori, tra un bicchiere di prosecco e una fetta di soppressa, possono ammirare i suoi scatti tutti rigorosamente in bianco e nero.
Da dove vengo? Chi sono? Proprio per rispondere a queste domande, Marcello ha imbracciato la macchina fotografica e ha percorso a ritroso un tempo che era vivido di emozioni, gesti lenti, e ricco di gente con personalità forti e storie da raccontare.
Se ti chiedessi cosa fotografi, cosa mi risponderesti?
“Cerco di fermare soprattutto l’emozione che mi deriva dal territorio dove vivo, inteso sia come paesaggio naturale, sia come mondo di uomini. E’ una tensione continua, la mia, cerco di cogliere questo non so che emerge spesso dalla luce, improvviso. Per questo, mi piace fotografare in controluce. E’ una sfida, a volte mi sembra di cogliere ciò che rincorro, altre volte nello scatto sono più indeciso. E mi spiace, perché ciò che desidero maggiormente è che le mie istantanee siano fedeli proprio all’emozione che rincorro e che credo di aver catturato nel momento in cui ho scattato”.
Marcello Zanin (straordinaria la sua somiglianza con il fotoreporter reggino Franco Cufari) ama girare da solo per i paesi e le campagne euganee e le sue “prede” sono quasi sempre personaggi singoli: la contadina che impasta il pane, il cacciatore che torna in bicicletta con un fagiano appena catturato, il seminatore avvolto dalla nebbia.
A Zanin piace fotografare le mani, che crede siano una delle parti più sensuali della persona. I primi piani per lui sono difficili, prima che qualcuno ti regali la propria naturalezza, ci vuole tempo. Frammenti di vita vissuta, momenti di gioia e di dolore, di fatica e preghiera, insomma, che l’obiettivo fissa per sempre, in attesa di una prossima volta.

24/10/08

MESSINA, SI RIPARLA DEL "VERMINAIO"


Si torna a parlare del caso Messina, del cosiddetto "verminaio dello Stretto". Lo fa, dopo un lungo silenzio dei media, seguito alla pubblicazione della relazione della commissione parlamentare antimafia, il settimanale Espresso, con una inchiesta sul suicidio del docente universitario Adolfo Parmaliana.
Ho vissuto in prima persona quei giorni convulsi della "visita" dell'Antimafia, sollecitata da un dossier dell'allora deputato di Rifondazione Niki Vendola che prendeva di mira, in particolare, il direttore del quotidiano egemone a Messina. Nino Calarco, che in verità non ebbe dalla redazione quella solidarietà che si aspettava, la prese malissimo. Per giorni e giorni se ne stette chiuso nella sua stanza, senza fare il consueto giro della redazioni: io e gli altri quadri del giornale, che avevamo responsabilità dei vari settori, entravamo per sottoporgli qualche questione, ma non avevamo il coraggio di affrontare l'argomento Vendola, mentre lo scritto del politico pugliese circolava tra le scrivanie.
Poi, col tempo, tutto continuò a scorrere come prima, mentre del "verminaio" si parlava sempre meno, fino a far calare la cortina del silenzio sulla città babba che però non era da tempo più tale.
Al giornale si erano vissuti momenti drammatici la sera in cui, decine e decine di agenti di polizia, dopo che era stata pubblicata la prima parte della relazione, fecero una perquisizione alla ricerca del documento "segreto" la cui copia da un tremebondo vice direttore (Calarco era fuori sede) venne prontamente consegnata.
Adesso che è passato molto tempo, e gli eventuali reati, ammesso che siano stati commessi, sono ampiamente prescritti, posso rivelare un retroscena.
Il collega e amico Nuccio Anselmo, cronista di giudiziaria, aveva promesso che si sarebbe procurato copia della relazione dell'Antimafia, ovviamente attesissima a Messina, e non solo dai giornalisti. Le ore passavano e la persona che aveva rassicurato Anselmo, il quale pregustava lo scoop, non si trovava. Vidi Nuccio in difficoltà e mi offrii di aiutarlo, a patto che trovasse qualcuno a Roma, in grado di recarsi a piazza San Macuto, sede dell'Antimafia, ricevere da un mio caro amico la sospirata copia, e inviarla via fax a Messina.
Nel giro di qualche minuto trovammo la persona, e le cartelle cominciarono ad arrivare, una dopo l'altra, per essere passate in tipografia. Il giorno dopo, si scatenò il putiferio. In città, ed anche nelle altre zone di diffusione della "Gazzetta" non si trovava una copia, i colleghi della cronaca furono tempestati di richieste da vari ambienti, Massoneria compresa, interessati a conoscere il secondo atto della storia, che non venne più pubblicato per ordine della magistratura.
La tragica vicenda del professor Parmaliana riporta all'attenzione nazionale Messina e gli intrecci tra magistratura, poteri occulti, mafia, informazione, investigatori "deviati". Stavolta, crediamo, il caso non verrà chiuso rapidamente perchè spesso il silenzio degli innocenti è quello che fa più rumore.

21/10/08

IL GRASSO FA MALE? NON E' PROPRIO VERO


Potrà sembrare strano, ma non sempre tutto ciò che è bianco vuol dire grasso. L’affermazione non è mia, appartiene ad un simpatico salumiere, con splendido negozio a due passi dalla stazione di Montegrotto Terme, il quale si diletta in studi e ricerche sulla qualità dei prodotti, in particolare i salumi, che offre ai suoi clienti, assieme a qualche nota da lui redatta con uno stile che oseremo dire, è giornalistico.
Per una produzione salumiera di qualità serve una carne con il grasso perimetrale (quello intorno alla massa muscolare e non intramuscolare, carne alla vista magra, ma ricca di grassi). Questo, sostiene l’amico salumiere-ricercatore per caso, identifica un suino che ha avuto una sana e naturale alimentazione.
Perché per mangiare magro bisogna che sia grasso?
Perché il suino italiano deve raggiungere un peso tra i 160 e i 180 chilogrammi in circa undici mesi di vita senza alimentazione “spinta” con una copertura di grasso non inferiore a 20 millimetri, misurata verticalmente presso la testa del femore.
Nel resto d’Europa, ha accertato questo salumaio (possiamo anche chiamarlo così) i suini sono macellati a pesi inferiori a 100 chilogrammi, quindi animali eccessivamente magri che tendono in fase di stagionatura a perdere troppa acqua e diventare così secchi e salati.
Per fare un prosciutto crudo di qualità, la coscia fresca deve avere un peso di circa 15 chili. In un buon prosciutto, infatti, la metà del tanto odiato grasso è costituito da acido oleico e il 12-15 per cento da acido linoleico, ritenuto importante nella prevenzione alimentare delle cardiopatie e dell’aterosclerosi.
E’ da tenere presente che, per quanto riguarda il prosciutto crudo, durante la stagionatura, le proteine vengono per la maggior parte scisse, come se fossero state predigerite.
Anche per un prosciutto cotto di prima qualità bisogna che ci sia un giusto strato di grasso di copertura che permette così di avere un’assenza di polifosfati, caseinati, latte in polvere, glutini e porcherie varie. Anche negli altri salumi, se la carne è di qualità, non servono diavolerie aromatizzanti.
Tutto questo, dice il salumiere di Montegrotto, non l’ho inventato io, ma è stato anche scritto da una studiosa di scienza delle preparazioni alimentari dell’università di Milano.

18/10/08

UN'ALTRA BUFALA....COSENTINA

C'è da restare veramente sconcertati di fronte alla leggerezza, chiamiamola così per carità di patria, con la quale certe notizie vengono "sbattute" in pagina e poi regolarmente smentite, come se non fosse accaduto nulla, giustificandosi con un puerile riferimento ad imprecisate fonti ufficiali.
Mi riferisco alla vicenda del signor Lo Giudice, titolare del ritrovo andato letteralmente distrutto qualche tempo fa nello spaventoso attentato di viale Moro, che ha provocato reazioni indignate, prese di posizione, queste sì, ufficiali, salvo poi cadere nel dimenticatoio. Ebbene, Lo Giudice è stato dato per "scomparso" e addirittura, il suo caso, neppure tanto velatamente, è stato accostato a quello di un giovane di Archi, appartenente, secondo i rapporti di polizia, a "famiglia" mafiosa, del quale si teme una tragica fine, con il sistema, d'importazione siciliana, della cosiddetta "lupara bianca".
Certamente non vogliamo gettare la croce addosso ai giovani colleghi, pagati a quattro soldi, del giornale che ha "sparato" la notizia e che è stato costretto, facendoci certo una pessima figura, a rimangiarsi tutto, usando il pretesto delle "fonti qualificate" che avrebbero soffiato all'incauto cronista il colossale bidone, che non è il primo e non sarà l'ultimo, se la nostra conoscenza di qualche personaggio che governa il giornale cosentino non ci inducesse ad essere pessimisti.
Basta leggere attentamente, soprattutto tra le righe, per capire qual è la "scuola" alla quale le giovani leve giornalistiche cittadine vengono allevate.
Non si può far credere, a chi questo mestiere vuol farlo sul serio, e soprattutto esclusivamente, senza impicciarsi in affari, affaroni, mediazioni, trattative, contatti politici, importanti Servizi, che la pagnotta si può guadagnarsela onestamente, facendo altrettanto onestamente il dovere del giornalista, che è principalmente quello di conquistare la credibilità.
Alla prossima bufala, che non è la pizza con la squisita mozzarella campana.

16/10/08

VORREI ESSERE UN MILIARDARIO INFELICE


Non ho mai amato il gioco, d'azzardo e non, pur avendo vissuto gli anni della giovinezza nelle redazioni e nelle tipografie dei giornali dove, nelle lunghe ore d'attesa per la chiusura delle pagine, si giocava, giornalisti e tipografi, un'alleanza che, dal punto di vista sindacale, faceva paura agli editori.

Da quando le tipografie sono diventate come la sala d'aspetto d'un ospedale, tutta plastica e bianco, a seguito della scomparsa del piombo e dell'introduzione del computer, ognuno finito il suo turno, che non si conclude più, all'alba, come una volta, se ne va a casa, senza neppure aver bisogno di cambiarsi.

Il tipografo nuova generazione lavora in giacca e cravatta e non si sporca le mani, ma è una specie ormai in estinzione, tra una ristrutturazione e l'altra.

Ho conosciuto colleghi che si sono giocati una fortuna e che, a fine mese, erano costretti a chiedere prestiti, per portare da mangiare a casa, lo stipendio, infatti, se l'erano giocato tutto.

Io, al massimo, mi sono concesso qualche partita a briscola, con la solita birra in palio, oppure ho giocato ai cavalli o al Lotto in società con altri, riuscendo in qualche occasione a vincere qualche sommetta.

Da qualche tempo, sarà per il clima che si vive a Roma in questo periodo con il Superenalotto milionario, ci ho preso gusto a riempire le schedine con i sei numeri che, se li azzecchi, ti ritrovi dalla sera alla mattina novello Paperon dei Paperoni. Oggi ho giocato un sistema, chiamato Il Mito, siamo in dieci, dopo tutto, sette-otto milioni a testa ci farebbero stare meglio. O no?. Per scherzo, usavo dire a un caro collega che si lamentava spesso, che vincendo una grossa somma avrebbe corso il rischio di diventare un miliardario infelice. Meglio povero, ma felice. Ho ancora nelle orecchie i suoi vaffa. Ora, però, questo rischio dell'infelicità lo sto correndo anch'io.

14/10/08

LA MERAVIGLIOSA AVVENTURA DEL GIORNALE DI CALABRIA

Questo articolo è stato pubblicato da L'Avanti, ex glorioso giornale socialista che il suo nuovo editore ha portato, da qualche anno, su posizioni politiche vicine al centrodestra, affidandone la direzione a un giovane professionista, Fabio Ranucci. Io vi collaboro non senza qualche emozione, al solo pensare agli uomini che vi hanno scritto o che lo hanno diretto, a cominciare da Sandro Pertini, ineguagliabile presidente della repubblica.

Aprile 1972, una primavera densa di speranze per la Calabria ancora scossa dai tragici eventi di Reggio, dove la cosiddetta “rivolta per il capoluogo” aveva portato lutti e divisioni, grosse difficoltà all’interno dei partiti, il governo della Regione a Catanzaro, il consiglio a Reggio Calabria, nel nome di un compromesso che aveva finito con il lasciare tutti scontenti.
In quei giorni, a due anni dalla chiusura della “Tribuna del Mezzogiorno”, nasceva un altro quotidiano che, stavolta, non partiva dalla Sicilia, ma aveva la sua “testa” nella Calabria, da sempre suddita, in tema d’informazione, di quella Sicilia divisa da un solco di mare sul quale avrebbe dovuto svettare l’agognato Ponte sullo Stretto.
Il Giornale di Calabria, stampato inizialmente a Roma, apparve nelle edicole il primo giorno d’aprile, fatto da calabresi per i calabresi, come recitava lo slogan sui manifesti che, a Reggio Calabria, vennero quasi tutti strappati.
E un motivo c’era: tutti sapevano che dietro questo ambizioso progetto editoriale, finanziato dalla Sir di Rovelli, con interessi nella Piana lametina, c’era Giacomo Mancini che da ministro della Sanità prima e dei Lavori Pubblici poi, tanto aveva fatto per la sua terra, ma i protagonisti dei fatti di Reggio Calabria gli avevano scatenato contro una vera e propria campagna d’odio, nella quale si distinse, in particolare, il settimanale fascista “Candido” diretto da Giorgio Pisanò, ex repubblichino, e personaggio a dir poco discutibile.
Quando il nuovo quotidiano, con una veste grafica moderna, vide la luce, il fantoccio raffigurante Mancini, assieme a quello di Misasi, pendeva ancora da qualche parte nella infuocata periferia reggina, teatro di scontri violenti con le forze dell’ordine costrette ad usare tutti i mezzi, blindati compresi, per spegnere il fuoco della rivolta.
Non fu un inizio facile, quindi, per il manipolo di giovani giornalisti, o aspiranti tali, che il capo redattore della Rai, Enzo Arcuri, reclutò, non tenendo conto, e questo va a suo merito, dell’appartenenza politica, ma cercando sul territorio qualche promessa. Bisogna dire che i fatti, tranne qualche ovvia eccezione, gli diedero ragione.
Chi scrive, era reduce dalla chiusura della “Tribuna”, che ormai aveva insidiato la leadership di Gazzetta del Sud, al punto da indurre l’editore Bonino a cedere un bel pacchetto d’azioni al cementiere Pesenti, che puntava alle forniture per il Ponte. Lavoravo in un settimanale edito dall’armatore Amedeo Matacena, assieme ad altri colleghi che non avevano scelto la strada dell’emigrazione, non avevo certo le migliori credenziali (Matacena veniva indicato, e per questo era anche finito in carcere, quale uno dei finanziatori della rivolta) per entrare nella redazione del foglio qualificato come “manciniano” e osteggiato anche da una parte dello stesso Psi.
Da Roma, perché in Calabria i professionisti non c’erano, arrivarono colleghi di provato valore come Lorenzo Salvini e Paolo Guzzanti, altri meno validi che poi si persero per strada, praticanti come me e altri calabresi, erano anche Pietro Mancini, Agostino Saccà e Mimmo Liguoro, le redazioni distaccate erano oltre che a Cosenza città, anche a Catanzaro e Reggio Calabria.
Fu dopo l’apertura dello stabilimento tipografico di Pian del Lago, a pochi chilometri da Cosenza, lungo quell’autostrada Salerno-Reggio Calabria fortemente voluta da
Mancini, che il primo gruppo di giovani giornalisti riuscì, non senza difficoltà, (la Calabria dipendeva dall’Ordine di Napoli) ad affrontare gli esami di Stato.
La cavalcata durò otto anni e mezzo, di quella redazione tanti sono ancora in attività, c’è chi ha fatto carriera, come Antonio Di Rosa, Francesco Faranda, Domenico Logozzo, Daniela Romiti, chi si è ritagliato spazi professionali importanti come Pantaleone Sergi, Luigi Piccitto, Raffaele Malito, Tonino Raffa, Pietro Melia, Antonio Scura, Santi Trimboli.
Ci hanno lasciato colleghi come Enzo Costabile, Michelangelo Napoletano, Giovanni Indrieri, Renato Mantelli, e lo stesso direttore, Piero Ardenti, cui tutti noi reduci da quell’indimenticabile esperienza dobbiamo qualcosa.
Di Mancini…..editore si può dire che il suo fu un amore importante per questa creatura che era “u giurnale” come usava chiamarlo in dialetto cosentino, e che mai esercitò pressioni, non impose a forza assunzioni e ruoli, non fu abbastanza deciso, a nostro avviso, quando bisognava usare il pugno duro. Forse, il Giornale di Calabria, non avrebbe alzato bandiera bianca, qualcuno disse perché lo stesso Mancini aveva preferito uccidere il neonato nella culla, pur di non farlo finire in mani “nemiche”.
Dovranno passare ben quindici anni, prima che la Calabria veda presenti nelle edicole un quotidiano tutto calabrese (ora ve ne sono ben quattro) ma il ricordo del “giornale di Mancini”, diventato una palestra per tanti giovani professionisti, resta vivo nella memoria dei cittadini che, per anni hanno seguito le battaglie politiche e civili, contro la criminalità, i poteri occulti, la classe politica inetta, portate avanti ogni giorno su quelle pagine stampate, per la prima volta un giorno di luglio, mentre una insolita nebbia avvolgeva Piano Lago. Qualcuno disse che lì intorno si aggirava l’ombra di Alarico, il re visigoto seppellito col suo tesoro nel greto del Busento, e mai ritrovato. Forse, che Ardenti ne sfruttasse il nome come pseudonimo per i suoi graffianti corsivi, lo aveva irritato.

13/10/08

VIAGGIO TRA LE DOLCI COLLINE TOSCANE

Vado spesso in Toscana, appena posso, e preferisco il Grossetano e l'Argentario. Porto Santo Stefano, per il mare, Saturnia per le terme, ma anche i paesini della cosiddetta strada del vino sono stupendi.
Girando per le numerose cantine della zona, puoi trovare un gran rosso, che è il morellino di Scanzano, e anche un bianco che non tutti conoscono, ma che viene considerato tra i primi in Italia, il bianco di Pitigliano. E poi l'olio, il formaggio, in gran parte lavorato dai pastori sardi che in questa parte della Toscana si sono insediati, e qualche danno l'hanno fatto anni fa, all'epoca dei sequestri di persona, per fortuna oggi finiti.
Quello che ti colpisce, da queste parti, è la grande tranquillità, non vedi, come da noi, un assiduo controllo del territorio da parte delle forze di polizia, nessun posto di blocco, tutto sotto controllo perchè, dicono, la mafia qui non c'è, anche se, da qualche tempo, episodi strani cominciano a verificarsi.
Ho potuto accertarlo di persona, andando verso la grande tenuta delle Macchie Alte, più di 400 ettari, ora trasformata in agriturismo dall'amico Gianni, che accoglie gli ospiti preparando una straordinaria acqua cotta, che una volta era il pasto povero dei boscaioli, e che ora è piatto di lusso.
Lungo la strada, infatti, ho avuto modo di notare una bella casetta tutta in legno, ancora circondata dalle impalcature, quasi totalmente distrutta dal fuoco: ho chiesto a qualcuno, poi ho dato uno sguardo alla cronaca locale della Nazione, due colonne per dare la notizia di questo incendio, forse di natura dolosa. La villetta è stata realizzata da un'impresa non del luogo per conto di un architetto senese. I carabinieri, stando a quanto si legge sul giornale, seguono qualche pista, ma nessuno sembra preoccuparsi più di tanto. Anche qui, in quest'isola felice, cominciano a vedersi questo tipo d'intimidazioni? Me lo sono chiesto, da toscano ad honorem, perchè mi dispiacerebbe davvero tanto se certe pessime abitudini, chiamiamole così, dovessero essere "esportate".

11/10/08

STATALE 106 DOVE LA MORTE E' SEMPRE IN AGGUATO

Di fronte all'ennesimo incidente mortale su quella che ormai da tutti è conosciuta come la strada della morte, ci induce a qualche riflessione, considerato che, dopo le reazioni nell'immediatezza, le considerazioni di maniera e le promesse d'interventi che non verranno mai fatti, è giunto il momento di fare qualche proposta.
Innanzi tutto, c'è da far capire, a suon di multe, previa l'installazione di adeguata segnaletica, che la 106 non è nè un'autostrada nè una superstrada, per cui valgono i limiti imposti dal Codice per le strade cittadine, cioè i 50 chilometri orari.
E' accaduto, in questi anni di frenetico e disordinato sviluppo urbanistico della zona a sud della città, che moltissimi siano gli svincoli privati, cioè gli accessi alla strada statale 106 da parte di chi ha realizzato complessi abitativi o normali residenze singole. Da ogni lato, quindi, ci si immette, con grandissimo rischio, considerato che trattasi di arteria a doppio senso e che quasi nessuno rispetta i limiti di velocità.
Una attività di prevenzione prima e di repressione, poi, da parte di pattuglie di vigili, polizia stradale, carabinieri, guardia di finanza, si rende a questo punto indispensabile, se si vuole fermare la strage.
Quasi sempre, infatti, la causa degli incidenti è l'alta velocità, per cui dissuasori ed altri semafori potrebbero servire allo scopo. Poi, impedire l'uso di accessi abusivi e la sistemazione delle banchine laterale con protezioni per i pedoni e i ciclisti. Ma forse perchè qualcuno si decida a farlo occorreranno altre vittime.

10/10/08

L' HOSPICE, UN MIRACOLO QUOTIDIANO

L'articolo che state per leggere fa parte d'una inchiesta, che ho allegato di seguito, pubblicata nel numero di Novembre del mensile cattolico Messaggero di Sant'Antonio, che stampa un milione di copie. Le foto sono del grande fotoreporter Rosario Cananzi, col quale ho diviso per anni straordinarie esperienze di lavoro e col quale ancora di tanto in tanto mi rituffo nel mestieraccio che mi ha accompagnato per più di quarant'anni. Invito tutti a leggere su Strill, il quotidiano on line diretto da Giusva Branca, e col quale collaboro, la riproduzione totale dell'inchiesta e a cercare in edicola e nelle chiese il Messaggero.
Via delle stelle è una stradina del quartiere San Sperato, periferia sud di Reggio Calabria, che nessuno conosceva, fino ad un anno fa, quando venne inaugurato l’Hospice, un edificio a quattro piani, con ampie terrazze, una scala a vista, e le stanze luminose. Attorno, tra qualche palazzo signorile, tante case cominciate e non finite, tirate su un po’ alla volta, quassù la ricchezza non è visibile.
E quassù, pian piano, è arrivata tanta gente che aveva perso ogni speranza e che, nell’Hospice, ha trascorso gli ultimi giorni di vita, consumati da quei mali che nel crudo linguaggio dei cronisti vengono definiti con una sola, agghiacciante, parola:.incurabili.
La gratitudine di tante famiglie, in questi dodici mesi d’attività, i numeri importanti per presenze e operatività, testimoniano quanto sia diventato essenziale questo che non è soltanto un luogo di dolore, chi ci lavora non accompagna gli ammalati verso una fine già decisa, il compimento d’un destino inesorabile.
Ogni anno, recitano nel loro spietato linguaggio le statistiche, sono 250 mila le persone che, nel nostro Paese, imboccano la strada, quasi mai senza uscita (se avviene il contrario è solo perché c’è stato un miracolo) della fase terminale di un tumore.
Gli hospice in altre parti d’Italia esistono da tempo, qui in Calabria ciò che è stato realizzato nella città dello Stretto ha veramente dell’eccezionale.
Il dramma di chi diventa malato terminale, si riflette principalmente sulle famiglie, quasi il 50 per cento dei familiari è costretto a cambiare radicalmente vita, a modificare gli impegni professionali o di lavoro, se non ad interromperlo. Tutto ciò per stare vicino a chi si ama, nei momenti conclusivi d’una esistenza spesso segnata da sofferenze indicibili.
Non c’è stata una vera e propria festa, per il primo compleanno dell’Hospice reggino, anche perché gli ultimi mesi sono stati drammatici, la chiusura è sembrata ad un certo punto inevitabile, vista l’insensibilità di chi avrebbe dovuto provvedere al necessario sostegno economico.
Ma la città ha avuto uno scatto d’orgoglio, tutti si sono mossi, con raccolta spontanea di offerte, interventi politici, la Chiesa non è stata a guardare, ma lo ha fatto con grande discrezione, senza entrare nel merito del conflitto tra istituzioni, tenendosi lontana dalle polemiche e collegandosi, sempre senza fare troppo rumore, con quelle associazioni cristiane, con quei gruppi della società civile che hanno sposato la causa di questa struttura.
E l’Hospice è lì, i servizi vengono ancora garantiti, pur se le difficoltà non sono cessate.
Le cure cosiddette palliative sono adesso riconosciute come livello essenziale di assistenza.
Le persone che vi lavorano, nella quasi totalità volontari, hanno accolto quasi un centinaio di persone “licenziate” dagli ospedali, che hanno così anche risparmiato mezzo milione di euro.
Un’attività incessante, come spiegano le dottoresse Paola Serranò e Ines Barbera, concentrate in assistenza domiciliare, ricoveri diurni, che sono di grande sollievo al malato oncologico, ambulatorio.
Se questa straordinaria struttura, in una città con tanti problemi e con una sanità che fa giornalmente i conti con un “buco nero” di debiti milionari, è andata avanti, lo si deve alla caparbietà con cui i rappresentanti della cooperativa “La via delle stelle”, Agostino Laruffa e Luciano Squillaci, hanno affrontato ogni sorta d’ostacoli, grazie anche all’indispensabile apporto di un ostinato gruppo di volontariato.
Nicola Saggese, il loro responsabile, definisce queste persone che ogni giorno spendono il loro tempo nell’Hospice, coloro che “si sporcano le mani con il dolore”.
“Chi soffre, ha dichiarato a Domenico Grillone, che lo ha intervistato per un quotidiano locale, è sempre preda di timori, si sente incapace e con la tentazione di lasciarsi andare”.
Tanti piccoli eroi, insomma, che giornalmente sono i compagni di viaggio di chi sta per andare via, per sempre.
In questo luogo di sofferenza, che si erge in un quartiere desolato, dove il degrado si tocca con mano e l’incuria degli amministratori e degli abitanti hanno trasformato in una babele urbanistica, si riscopre la dimensione dell’uomo. Non a caso, il nuovo direttore sanitario dell’azienda ospedaliera reggina, venuto dal Nord, Enzo Rupeni, ha definito l’Hospice di via delle stelle uno dei migliori tra quelli da lui conosciuti e, addirittura, migliore di uno da lui stesso progettato.
Dopo un anno di sofferenze, di promesse non mantenute, di battaglie contro la burocrazia, finalmente s’intravede uno spiraglio confortante: il ministero della salute ha stanziato i fondi per la formazione del personale dell’Hospice . C’è stato chi si è prodigato per ottenere questo risultato, ma è voluto rimanere nell’ombra, come è giusto, la solidarietà non ha bisogno di spot pubblicitari. E ogni giorno c’è chi continua a imboccare la via delle stelle.

LA CALABRIA RACCONTATA DA ME.....A SANT'ANTONIO

Questo è il testo di una mia inchiesta che è pubblicata nel numero di Novembre del Messaggero di Sant'Antonio, mensile cattolico diffuso in tutto il mondo con una tiratura di un milione di copie. Spero faccia piacere ai miei 25 lettori, per dirla col Manzoni, che mi onorano della loro quotidiana attenzione, Che crepino gli invidiosi!.
La Calabria delle speranze deluse, delle promesse non mantenute, della criminalità sempre più violenta, delle migliaia di disoccupati, dello sfascio ambientale, della politica litigiosa.
Ma anche la Calabria delle intelligenze esportate, delle grandi risorse artistiche e archeologiche, del mare splendido, della montagna con la sua bellezza selvaggia, degli scienziati in ogni campo, dalla fisica alla medicina.
Una terra tanto bella quanto sfortunata, tra terremoti, guerre, invasioni, alluvioni, epidemie che non hanno piegato la sua gente, sempre pronta a ricominciare, spinta da un innato fatalismo che la penna di grandi scrittori ha saputo mirabilmente descrivere.
Il calabrese, come diceva Corrado Alvaro, s’accontenta di poco, basta sapergli parlare, ed è ancora così come la videro i grandi viaggiatori e pensatori del passato, da Norman Douglas a Gioacchino da Fiore, da Tommaso Campanella, a Leonida Repaci ,da Edward Lear (memorabile il suo diario d’un viaggio a piedi) e Bernard Berenson.
Tra poche luci e molte ombre si va avanti. Negli ultimi anni, poi, i segni d’un cambiamento si sono visti, l’emigrazione s’è ridotta, qualche industria ha chiuso, ma qualche altra è nata, in alcuni settori, come confermano gli indici economici più recenti, la ripresa è evidente. Soprattutto, si sono intravisti segnali incoraggianti per quanto riguarda la presa di coscienza della gente per cui vivere nella legalità, a lungo andare, paga. Un esempio formidabile è venuto dalla Chiesa, da quella di provincia in particolare, le cooperative create dal vescovo Giancarlo Bregantini, che purtroppo ha lasciato la Calabria, hanno fatto scuola, l’esempio è stato seguito altrove. Una regione che ha rialzato la testa e che spera negli aiuti europei per rilanciare il turismo, migliorare le comunicazioni, creare occupazione, impedire l’emigrazione intellettuale. C’è poi da recuperare per attività legali l’enorme mole di beni sequestrati alla mafia, per milioni di euro. Qualcosa si sta facendo, ma ci sono ancora tanti ostacoli da superare. Gli amministratori devono capire che solo così la Calabria potrà diventare la California del Mediterraneo.
Catanzaro è il capoluogo di regione, un “pennacchio” per i reggini che hanno vissuto la rivolta popolare degli anni Settanta, un simbolo per gli abitanti della città dei tre colli, come viene chiamata, per la sua posizione che, fino a qualche anno fa, la rendeva quasi simile ad un nido di aquile.
Ora, grazie ad un reticolo di viadotti e svincoli che la collegano all’autostrada, Catanzaro si è sviluppata ed è andata nel tempo perdendo la fisionomia di capitale burocratica della regione. Infatti, nella zona di Marcellinara ha preso man mano corpo un agglomerato industriale di tutto rispetto, a pochi passi dall’aeroporto internazionale di Lamezia Terme, uno dei più sicuri d’Italia, in continuo aumento di passeggeri e di collegamenti.
Catanzaro è anche la sede del governo regionale che, dopo le elezioni di tre anni fa, è nelle mani di Agazio Loiero, ex democristiano avvicinatosi col tempo sempre più alla sinistra, anche se forte di un consenso personale ragguardevole. Intellettuale della Magna Grecia, per dirla col presidente Cossiga, il presidente della Giunta sta cercando di togliere dalle secche la navicella regionale, anche se i risultati, come ama spesso ripetere, li raccoglierà chi verrà dopo di lui che, in verità, ha dovuto più volte rimpastare l’esecutivo al punto da meritarsi la caustica definizione di Giunta…autobus, ogni tanto scende un assessore, e sale un altro.
Il fiore all’occhiello di Catanzaro, ma anche dell’intera Calabria, dovrebbe essere la cittadella regionale, un complesso mastodontico nel quale verrebbero riuniti tutti gli uffici e le strutture della Regione, risparmiando milioni di euro di affitti e consentendo uno snellimento delle procedure burocratiche con tutti gli assessorati in rete.
La cittadella è stata il cavallo di battaglia di Loiero, durante la campagna elettorale, dopo un quinquennio non proprio esaltante del governo di Giuseppe Chiaravalloti, ex magistrato nelle grazie di Silvio Berlusconi.
L’altro asso nella manica del governatore, che però corre il rischio di doversi trasformare in un boomerang, è la sponsorizzazione, costo otto milioni di euro, della Nazionale di calcio. L’U E, è notizia di questi giorni, avrebbe però trovato da ridire su come verrebbero spesi questi fondi europei. Qualcuno sostiene che si tratta di soldi destinati ad opere pubbliche e “distratti” per dare una lustrata all’immagine con il calabrese Gattuso testimonial .
All’estero, ci conferma la giornalista del The Wall Street Juornal, Deborah Ball, queste cose non piacciono molto. “Sto facendo un giro nella regione, ci dice, e sto anche scrivendo un libro sulla figura del grande stilista reggino Gianni Versace. Debbo confermare l’impressione favorevole che Reggio mi ha fatto, rispetto ad un recente passato, ma già dall’epoca Falcomatà c’era stata una svolta, dopo anni difficili. Certo, la gente è ancora chiusa, il calabrese, forse per ataviche diffidenze, è restio ad aprirsi al forestiero e non accetta volentieri intromissioni nella vita quotidiana, è assai difficile avere informazioni per chi voglia condurre un’inchiesta, all’americana, appunto. Alla Provincia, già governata dalla destra, è arrivata una donna assai battagliera, Wanda Ferro, di An, alla quale è affidato il compito di proseguire l’opera dell’attivo compagno di partito Michele Traversa.
I programmi sono interessanti, anche perché alle donne ed ai giovani sono riservati spazi importanti, ma ancora è prematuro parlare di “nuova fase di sviluppo” per un territorio che ha visto ristretti i margini geografici ed anche le risorse economiche sottratti dalle giovani province di Vibo Valentia e Crotone.
Non altrettanto positivi sono i riscontri che arrivano dal Comune che dallo scorso anno è guidato da un politico di lungo corso, Rosario Olivo, un passato nel Psi, poi approdato all’area diessina, già deputato e presidente della Regione. Grande esperienza amministrativa, ma difficoltà nel riavviare la macchina comunale di una città che presenta la sua immagine positiva attraverso il grande teatro progettato da Renzo Piano, che ha consentito una programmazione artistica degna di una metropoli.
Qui, meno che altrove, fatta eccezione per il Lamentino, la presenza delle organizzazioni mafiose è minore.
Il viaggio verso Reggio Calabria non è dei più facili, tra un cantiere e l’altro dell’autostrada, i cui lavori di ammodernamento sembrano non avere mai fine, sia per difficoltà economiche che per la serie di intimidazioni da parte delle cosche che controllano il territorio e che, nonostante varie iniziative della magistratura, con decine e decine di arresti, non rinunciano alla loro attività principale, quella delle estorsioni.
“Siamo arrivati al punto di chiedere l’intervento dell’esercito, spiegano i sindacalisti Mina Papasidero, Paolo Morganti.e Francesco Maviglia, che rappresentano la categoria degli edili di Cgil, Cisl e Uil, la pressione della mafia s’è fatta insostenibile, anche i sindaci dovrebbero darci una mano”.
Reggio vive uno dei momenti migliori della sua storia con un sindaco, Giuseppe Scopelliti, giovane, che tutti chiamano familiarmente Peppe, chiamato a raccogliere l’eredità di quell’ Italo Falcomatà, il protagonista della “primavera reggina” dopo anni d’immobilismo amministrativo tra una guerra di mafia e l’altra.
Scopelliti è riuscito ad interpretare al meglio i sentimenti popolari, ha speso forse male le risorse, come sostengono gli oppositori, ma ha ottenuto dal Governo la necessaria attenzione. Milioni di euro da investire, il simbolo della città, oltre al castello aragonese, è destinato a diventare il nuovo palazzo di giustizia, di straordinaria valenza architettonica.
Buoni i suoi rapporti con la Curia, Scopelliti ha assegnato ad associazioni antimafia e religiose beni sottratti con la confisca alla ‘ndrangheta. Stanno sorgendo ostelli, case di riposo, impianti destinati a cooperative e comunità terapeutiche.
Questo è l’anno dell’anniversario del disastroso terremoto del 28 dicembre 1908 che rase al suolo Reggio e Messina, che si guardano attraverso lo Stretto, e che ancora portano i segni di quello spaventoso cataclisma. Anche la Provincia, strappata alla destra con una percentuale altissima di consensi per Giuseppe Morabito, vecchio Pci, rigorosamente uomo di partito, farà la sua parte per ricordare alla memoria popolare un evento tragico che fece conoscere a tutto il mondo la realtà di due città cancellate in pochi secondi dall’onda di maremoto, dopo che la terra aveva tremato per quasi venti minuti.
Reggio è sede del consiglio regionale, frutto del compromesso che la classe politica trovò, per porre fine allo scontro con Catanzaro. Il presidente Giuseppe Bova, del partito democratico, di recente avvicinatosi alle posizioni di Massimo D’Alema, vuol passare alla storia per un’iniziativa che ha suscitato enormi consensi e che altre Regioni pare vogliano copiare.
Per evitare la fuga dei migliori cervelli verso il Nord (sono ancora tanti i giovani che vanno all’università altrove, e non tornano dopo la laurea) cinquecento neo laureati col massimo dei voti, per due anni, verranno stipendiati dalla Regione e fatti maturare con stage presso le imprese e nelle strutture burocratiche. Poi, toccherà ad altri cinquecento, con la speranza che molti di loro non preparino la valigia e incrementino l’emigrazione intellettuale.
Certo, le luci che s’accendono sono parecchie, ma altrettante sono le ombre che gravano su una città che, solo qualche anno fa, un parlamentare durante una delle abituali “passerelle” della Commissione antimafia, non esitò a definire la Beirut del Sud.
Intanto, le poche industrie esistenti sul territorio sono quasi tutte in difficoltà, aziende di grandi tradizioni, come la Mauro caffè, nota in tutto il mondo, sono passate di mano, la famiglia degli armatori Matacena, gli “inventori” del traghettamento privato nello Stretto di Messina, ha preferito andarsene a vivere a Montecarlo.
C’è Gioia Tauro, col più grande porto del Mediterraneo per la movimentazione di container, ma anche uno scalo ad alto rischio per l’infiltrazione delle temibili famiglie mafiose della Piana. Di tanto in tanto, si diffonde la voce di possibile abbandono delle grandi società di transhipment che sceglierebbero altri porti più sicuri dal punto di vista ambientale.
“Sarebbe una sciagura, commenta Michele Albanese, giornalista del Quotidiano della Calabria, che segue giornalmente le vicende del porto gioiese, sia per i riflessi sull’occupazione, qui è la nostra Fiat, che per la possibilità che avrebbero le cosche di reclutare giovani”.
Una sottile linea di confine divide la provincia reggina da quella di Vibo Valentia, solo qualche chilometro tra Rosarno e Nicotera, e più avanti una delle “perle” del Tirreno, quella Tropea che accoglie ogni anno migliaia di turisti da ogni parte del mondo.
Vibo, liberatasi dal “dominio” catanzarese, adesso cammina con le sue gambe, forte com’è della risorsa turismo che garantisce investimenti e benessere, nonostante la crisi che ha caratterizzato questi ultimi mesi.
Poi, l’industria della lavorazione del tonno, attorno alla quale sono nate attività collaterali. Il grande Acquapark di Zambrone ha aperto la strada ad altri impianti simili sorti nel Cosentino e nel Crotonese. Un prodotto della civiltà contadina, la piccantissima ma altrettanto gustosa ‘nduja, ha ormai varcato i confini di Spilinga, dove praticamente viene lavorata in ogni casa, per trovare mercato in tutta Italia.
Questa è la Calabria, che riesce a trovare dentro di sé la forza per superare ogni genere di avversità, da quelle della natura, a quelle causate dagli uomini. Vibo una macchia ce l’ha, ed è oggetto di quasi quotidiana attenzione sulla stampa locale. L’alluvione di due anni fa, che provocò danni ingentissimi e lutti, ha lasciato ancora evidenti i segni di una ricostruzione che tarda a mettersi in moto. Il fango è stato tolto dalle strade, ma ancora scuole inagibili, case crollate, strade cancellate, mentre si attende che qualcuno mantenga promesse solennemente fatte, davanti alle telecamere, a microfoni accesi.
Aspettano pure di non essere “mangiati” dalla frana che rischia di far scomparire quella manciata di case aggrappate a un costone, gli abitanti di Cavallerizzo, in provincia di Cosenza. Per giorni e giorni, in tanti, da Roma e Catanzaro, arrivarono fin quassù, promettendo che presto tutto sarebbe stato risolto ed ognuno di quelli costretti ad andarsene altrove, chiedendo ospitalità a parenti ed amici, o addirittura emigrando, sarebbe presto tornato a casa.
Cavallerizzo è l’emblema di quello “sfasciume pendulo” di cui parlava Giustino Fortunato, il meridionalista che più di ogni altro, seppe capire la Calabria.
Cosenza, che ha visto negli anni allargarsi urbanisticamente verso Rende, quasi a ridosso della città universitaria di Arcavacata, ha perso figure importanti di politici, quali Giacomo Mancini e Riccardo Misasi, per non dire di Antonio Guarasci, il primo presidente della Regione, che aveva una visione illuministica del governare.
Dopo la parentesi di Eva.Catizzone, pupilla di Mancini, entrata nelle cronache rosa e nel gossip più sguaiato, dopo la sua relazione con un big della sinistra, Nicola Adamo, che le ha dato un figlio, la città è governata da Salvatore Perugini, un figlio d’arte (il padre è stato a lungo parlamentare regionale e nazionale) che sta puntando sulla riqualificazione del magnifico centro storico e nel miglioramento dei collegamenti, grazie anche all’autostrada, il cui tracciato l’allora ministro dei lavori pubblici, Giacomo Mancini, pretese venisse modificato per togliere dall’isolamento la città dei Bruzi.
Il giovane nipote del “Califfo”, come gli avversari politici usavano apostrofare l’anziano leader socialista, Giacomo junior, chiusa la sua breve parentesi da deputato della sinistra, viene ora insistentemente corteggiato da Berlusconi che, addirittura, lo vedrebbe candidato alla guida della Regione alle elezioni del 2010.
Chi sta peggio di tutte le province, è Crotone, un tempo “capitale” dell’industria, ma da anni stretta nella morsa delle ristrutturazioni e conseguenti migliaia di cassintegrati. Crotone significa Gerardo Sacco, orafo delle dive che piace anche ai Papi, numerose le opere per conto di varie Curie. Un mito per i giovani, anche per quelli che non lo hanno conosciuto, il cantante Rino Gaetano, morto tragicamente anni fa.