Verso la fine d’agosto, quando il sole brucia così tanto da spaccare le pietre, nei letti asciutti delle fiumare, i sentieri che salgono verso Polsi brulicano.
Dall’alto, è come vedere una lunga fila di formiche nere, da cui s’alza una nube di polvere.
Quell’agosto del 1943 gli americani erano sbarcati a Reggio da poco, nell’aria si sentiva nuovamente il profumo della libertà. A Polsi andarono a migliaia, reduci e sbandati, mutilati e mafiosi. Il maresciallo dei carabinieri Giuseppe Delfino, passato alla storia come “massaru Peppe”, aveva un solo militare a disposizione.
Per garantire l’ordine, in quella turba vociante di gente armata fino ai denti, distribuì sul campo incarichi, nominando marescialli, honoris causa, alcuni noti capibastone.
Non successe nulla, anche se la riunione della ‘ndrangheta si tenne come al solito, al “Serro degli zappini”, una radura nascosta da altissimi pini. Ormai da anni i mafiosi non tengono più la loro assemblea in occasione della festa della Madonna della montagna, in particolare da quando, l’ultima domenica d’ottobre del 1969, un manipolo di agenti di polizia e carabinieri, scoprì un gruppo di mammasantissima mentre stavano ascoltando il “verbo” di don Peppino Zappia, di Taurianova, assiso su un trono fatto di pietre.
Adesso, le cose sono cambiate, le riunioni dei capi della ‘ndrangheta degli anni Duemila si fanno in lussuosi alberghi di grandi città, o in ville con piscina, anche in Costa Azzurra.
Continua, però, la tradizione popolare. Il giorno della festa i pellegrini arrivano da tutte le parti nel segno d’una devozione che si osserva da secoli anche in Sicilia, nel solco d’una tradizione siculo-araba.
Da Ganzirri, a bordo di grosse barche, come raccontano in un loro saggio due giudici messinesi, Rocco Sisci e Franco Chillemi, si raggiunge Villa San Giovanni da dove, con altri mezzi, si sale a Gambarie prevalentemente a piedi. I fedeli, molti dei quali hanno da “sciogliere un voto”, arrivano stremati davanti al monastero edificato nel Settecento per volere del vescovo Del Tufo, sui resti di quello medievale.
La chiesa presenta tracce di complesse rielaborazioni architettoniche, avvenute negli ultimi tre secoli. Alla fine dell’Ottocento, il vescovo Macrì volle riordinare il santuario, vennero costruite le case dei pellegrini e restaurato il monastero.
Si possono soltanto immaginare le fatiche di coloro che dovettero trasportare i pesanti marmi per l’altare. Per il resto dell’anno, quando attorno a Polsi è soltanto silenzio, i “frati cerconi” che indossano un pesante saio d’orbace, vanno in giro per i paesi della Calabria, una volta cavalcando una mula, adesso in automobile.
In ogni paese hanno i punti di riferimento e, come narra Antonio Delfino in “Gente di Calabria”, raccolgono oboli in denaro e in natura.
Il tutto poi viene distribuito in occasione della festa del 2 settembre. Tra la folla ondeggiante dei fedeli, come in preda a una sbornia collettiva, mentre gli organetti suonavano sfrenate tarantelle, si aggirava, giovanissimo, Corrado Alvaro che a Polsi e ai suoi riti dedicò uno studio.
Egli parla di pellegrini, ma prevalentemente di penitenti, con il capo cinto da corone di spine, “non mai stanchi e par che del lungo viaggio li rinfranchi la canzone dettata da un rapsodo occulto che è il più grande: l’anima del popolo”.
Alvaro descrive l’abbigliamento del pastore che suona la zampogna e gli spari, perché “in questa festa i fuochi artificiali non turbano le sacre ombre della montagna” mentre le donne strofinano la lingua sul pavimento e i muti gesticolano emettendo grida gutturali con la fede intensa che traspare dagli occhi.
Le madri tendono le braccia invocando, offrono le vesti dei loro piccoli alla Vergine. E’ tutto un popolo che invoca, spera e crede.
Il pellegrinaggio è nei ricordi di Fortunato Seminara: è il viaggio senza speranza di due donne, la metafora della Calabria delle baracche, della Calabria chiusa, angusta, oppressa, immobile.
La Madonna della montagna, che ha i lineamenti d’una contadina e tiene in braccia un robusto bambino, protegge buoni e cattivi. Spesso l’immaginetta insanguinata è stata trovata nelle tasche di uomini straziati dalla lupara, o nei rifugi dei latitanti.
L’hanno chiamata, perciò, la Madonna della ‘ndrangheta, ma non è così. Come ogni anno, si rinnova l’appuntamento di Polsi, sotto il suo manto la Vergine accoglie tutti, benefattori e assassini, uomini e donne con e senza peccato perché a Lei tocca il perdono.
Dall’alto, è come vedere una lunga fila di formiche nere, da cui s’alza una nube di polvere.
Quell’agosto del 1943 gli americani erano sbarcati a Reggio da poco, nell’aria si sentiva nuovamente il profumo della libertà. A Polsi andarono a migliaia, reduci e sbandati, mutilati e mafiosi. Il maresciallo dei carabinieri Giuseppe Delfino, passato alla storia come “massaru Peppe”, aveva un solo militare a disposizione.
Per garantire l’ordine, in quella turba vociante di gente armata fino ai denti, distribuì sul campo incarichi, nominando marescialli, honoris causa, alcuni noti capibastone.
Non successe nulla, anche se la riunione della ‘ndrangheta si tenne come al solito, al “Serro degli zappini”, una radura nascosta da altissimi pini. Ormai da anni i mafiosi non tengono più la loro assemblea in occasione della festa della Madonna della montagna, in particolare da quando, l’ultima domenica d’ottobre del 1969, un manipolo di agenti di polizia e carabinieri, scoprì un gruppo di mammasantissima mentre stavano ascoltando il “verbo” di don Peppino Zappia, di Taurianova, assiso su un trono fatto di pietre.
Adesso, le cose sono cambiate, le riunioni dei capi della ‘ndrangheta degli anni Duemila si fanno in lussuosi alberghi di grandi città, o in ville con piscina, anche in Costa Azzurra.
Continua, però, la tradizione popolare. Il giorno della festa i pellegrini arrivano da tutte le parti nel segno d’una devozione che si osserva da secoli anche in Sicilia, nel solco d’una tradizione siculo-araba.
Da Ganzirri, a bordo di grosse barche, come raccontano in un loro saggio due giudici messinesi, Rocco Sisci e Franco Chillemi, si raggiunge Villa San Giovanni da dove, con altri mezzi, si sale a Gambarie prevalentemente a piedi. I fedeli, molti dei quali hanno da “sciogliere un voto”, arrivano stremati davanti al monastero edificato nel Settecento per volere del vescovo Del Tufo, sui resti di quello medievale.
La chiesa presenta tracce di complesse rielaborazioni architettoniche, avvenute negli ultimi tre secoli. Alla fine dell’Ottocento, il vescovo Macrì volle riordinare il santuario, vennero costruite le case dei pellegrini e restaurato il monastero.
Si possono soltanto immaginare le fatiche di coloro che dovettero trasportare i pesanti marmi per l’altare. Per il resto dell’anno, quando attorno a Polsi è soltanto silenzio, i “frati cerconi” che indossano un pesante saio d’orbace, vanno in giro per i paesi della Calabria, una volta cavalcando una mula, adesso in automobile.
In ogni paese hanno i punti di riferimento e, come narra Antonio Delfino in “Gente di Calabria”, raccolgono oboli in denaro e in natura.
Il tutto poi viene distribuito in occasione della festa del 2 settembre. Tra la folla ondeggiante dei fedeli, come in preda a una sbornia collettiva, mentre gli organetti suonavano sfrenate tarantelle, si aggirava, giovanissimo, Corrado Alvaro che a Polsi e ai suoi riti dedicò uno studio.
Egli parla di pellegrini, ma prevalentemente di penitenti, con il capo cinto da corone di spine, “non mai stanchi e par che del lungo viaggio li rinfranchi la canzone dettata da un rapsodo occulto che è il più grande: l’anima del popolo”.
Alvaro descrive l’abbigliamento del pastore che suona la zampogna e gli spari, perché “in questa festa i fuochi artificiali non turbano le sacre ombre della montagna” mentre le donne strofinano la lingua sul pavimento e i muti gesticolano emettendo grida gutturali con la fede intensa che traspare dagli occhi.
Le madri tendono le braccia invocando, offrono le vesti dei loro piccoli alla Vergine. E’ tutto un popolo che invoca, spera e crede.
Il pellegrinaggio è nei ricordi di Fortunato Seminara: è il viaggio senza speranza di due donne, la metafora della Calabria delle baracche, della Calabria chiusa, angusta, oppressa, immobile.
La Madonna della montagna, che ha i lineamenti d’una contadina e tiene in braccia un robusto bambino, protegge buoni e cattivi. Spesso l’immaginetta insanguinata è stata trovata nelle tasche di uomini straziati dalla lupara, o nei rifugi dei latitanti.
L’hanno chiamata, perciò, la Madonna della ‘ndrangheta, ma non è così. Come ogni anno, si rinnova l’appuntamento di Polsi, sotto il suo manto la Vergine accoglie tutti, benefattori e assassini, uomini e donne con e senza peccato perché a Lei tocca il perdono.
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