Tanto tempo è passato, ormai, da quel nove agosto del 1991, il giorno dell’uccisione, per mano mafiosa, del giudice Antonino Scopelliti, nato a Campo Calabro, sostituto procuratore generale della Cassazione, colto, brillante, popolare per le sue apparizioni in importanti trasmissioni televisive.
L’appuntamento, la morte lo fissò quel limpido pomeriggio lungo una stradina dalla quale si domina lo Stretto che, quando il sole sta per tramontare, si colora quasi di viola.
E lui arrivò, guidando in jeans e camicia la sua Bmw blu: lasciatasi alle spalle la tortuosa e panoramica statale 18, imboccò la rampa, assai stretta, e poi un rettilineo tra i vigneti, un bersaglio facile per un sicario esperto e spietato.
Il cronista, a volte, fa come l’assassino: torna sul luogo del delitto. Va alla ricerca di nuove sensazioni, di qualche spunto che, su questo drammatico “omicidio eccellente” nessuno può dargli. Sulla morte di Nino Scopelliti è calato il silenzio, troppo presto. L’inchiesta, partita male, non ha avuto lo sbocco giudiziario che tutti s’attendevano, la sua morte è rimasta, desolatamente, “ad opera d’ignoti”.
I chi e i perché sono destinati a rimanere sospesi, come le nuvole che s’addensano, sul cielo della Costa Viola, un pomeriggio d’agosto, di tanti anni dopo.
Tutto è rimasto quasi come allora: qualcuno ha provveduto a riparare il cancelletto che, travolto dall’auto del giudice, era stato divelto, la recinzione di filo spinato è stata sistemata alla meglio, rimessi a posto anche i paletti della vigna dove l’auto precipitò quando chi la guidava, col collo squarciato dai pallettoni, non fu più in grado di controllarla.
Adesso, in quel punto dove si consumò il dramma c’è una stele, neppure tanto bella, ma c’è, di pietra grigia, assediata dalle erbacce che, ad ogni anniversario, qualcuno ripulisce, perché nel giorno della memoria c’è ancora chi viene quassù a ricordarlo e pregare, deporre un mazzo di fiori. Si ricorda un uomo assassinato dalla mafia ma che, stranamente, è come se non fosse mai morto. Nell’ondata di rievocazioni, nel mare di opinioni, interviste, polemiche, discussioni, il ricordo di Scopelliti è come disperso.
Era in vacanza, quando fu ucciso, ma non aveva messo da parte il suo rigore, il senso del dovere: a casa, sulla scrivania, montagne di carte, gli atti del maxiprocesso di Palermo.
E’, più o meno, la stessa ora di quando l’agguato, preparato con cura, venne messo in atto, la stradella è deserta, guardando in giù, verso Santa Trada, si vedono le auto sfrecciare lungo l’autostrada. Le navi traghetto solcano il mare lasciandosi dietro una scia di schiuma, la spiaggia, laggiù in fondo, dove Scopelliti amava trascorrere gran parte della giornata, è punteggiata da ombrelloni variopinti.
Allora, nessuno vide o sentì nulla: qualcuno, da una stazione di servizio, notando quell’auto precipitare e schiantarsi tra i tralci già carichi d’uva, pensò a un incidente stradale.
E così si perse tempo prezioso, i primi ad arrivare pensarono a tutto (un malore, persino il suicidio) meno che a un feroce delitto.
Un omicidio preventivo, frutto di “sinergie” mafiose, un accordo criminoso tra la ‘ndrangheta e le cosche siciliane, ucciderlo nella sua terra per dare un preciso messaggio.
Come cancellare dalla memoria quelle ore: la concitata telefonata che ti dà il primo, incerto, annuncio, l’altalena di conferme e smentite, finchè non arrivi sul posto dove a centinaia le persone assistono alle prime operazioni, seguono il lavoro del medico legale, dei fotografi.
Come dimenticare i volti pallidi, le lacrime dei colleghi reggini amici di Nino, di quelli che, solo pochi minuti prima, avevano fissato con lui l’appuntamento per una cena sotto le stelle.
E ancora una volta, al centro dell’attenzione, ci sarebbe stato lui, tanto riservato e schivo al punto da sembrare scostante, nella sua vita romana, divisa tra il piccolo appartamento di via della Scrofa e l’ufficio al Palazzaccio di piazza Cavour, quanto aperto e cordiale durante i suoi soggiorni calabresi.
Per i colleghi era un esempio, per i giovani un idolo, alle donne piaceva, portava con straordinaria disinvoltura i suoi 56 anni, era troppo facile amarlo, essergli amici, affrontava duri scontri dialettici, nell’esercizio del ruolo di grande accusatore, ma sempre col sorriso sulle labbra.
Col Ferragosto alle porte, l’omicidio Scopelliti riportò l’attenzione dello Stato sulla Calabria, sulla disastrata Reggio dove l’”armistizio” tra i clan in lotta da anni non era ancora stato siglato.
Per giorni, il blocco marittimo attuato dai pescatori delle “spadare”, aveva trasformato le due coste in bolge infernali, mentre i giornali dedicavano grande spazio al delitto di via Poma, a Roma, anche questo destinato a restare insoluto.
Cossiga, terreo in viso, Martelli fresco d’abbronzatura, il povero Falcone, Sica con la barba sempre più bianca, il questore arrivato da poche ore, e che durò solo sei mesi, momenti di grande sgomento nella notte davanti alla prefettura, mentre a Campo Calabro la gente vegliava davanti a quella casa nella quale Antonino Scopelliti veniva riportato, disteso nella bara, col collo fasciato da un fazzoletto di seta, per nascondere l’oltraggio della lupara.
“Questo assassinio è contro la vita e contro lo Stato”, disse Cossiga, stremato su un divano nell’abitazione del prefetto, il ministro della giustizia promette, genericamente, leggi più severe. Ma ci vorranno ben altri morti, tanti lutti, perché lo Stato si decida a reagire e mettere in campo nuove risorse.
Torniamo sui nostri passi, lungo la strada angusta e scoscesa che, da Ferrito, attraverso Piale, porta a Campo Calabro. Nell’aria c’è un odore strano, d’erba tagliata di fresco e di terra smossa. Quel giorno, ne siamo certi, tanti occhi hanno visto come adesso, siamo sicuri, stanno osservando noi. Ma nessuno ha parlato. La moto con le “vedette”andava su e giù, in attesa che Lui arrivasse. Poi, in trenta infernali secondi, tutto finì, in una nuvola di polvere e un forte rumore metallico.
Mi chiedo, ancora una volta: sapremo mai chi lo ha ucciso?
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