IL BUIO RIMANE IMMOBILE
SOPRA DI ME,
LEGGERO COME UN CIELO D'ESTATE,
MI NASCONDO DENTRO
E ASPETTO QUALCOSA O QUALCUNO
SENZA UN NOME,
SENZA IMMAGINE,
QUALCUNO CHE SI CONFONDE
CON DESIDERI IMPOSSIBILI,
CHE MI ATTRAVERSANO
COME FANTASIE,
COME SOGNI A CUORE APERTO.
31/10/08
29/10/08
IL MIO "INCONTRO" CON LA VENERABILE CARLA
Torre Pedrera è un luogo di villeggiatura, lungo la splendida riviera adriatica, in provincia di Rimini, un posto che d’estate, è la meta preferita dei turisti tedeschi, e anche di tante comitive che, da ogni parte d’Italia accorrono, ma non per gustarsi sole e mare.
Sono i pellegrini che vanno a pregare sulla tomba di una donna in odore di santità, che si chiamava Carla Ronci, nata a Rimini l’11 aprile del 1936, e che diede l’addio alla terra il 2 aprile del 1970, era una luminosa giornata di primavera.
Ho davanti la sua foto, inviatami da una coppia di cari amici, Angiolina e Giuliano Parmeggiani, conosciuti qualche anno fa ad Ischia, e con i quali abbiamo stabilito un rapporto di grande affetto e di condivisione delle idee sulla religione, sulla solidarietà, insomma sul modo che abbiamo in comune di concepire la vita di chi è davvero cristiano.
Questa che voglio raccontare agli affezionati lettori del mio blog, è la storia d’una di quelle ragazze in cui, alla bellezza fisica ed ai doni della natura, la ricchezza della grazia e i carismi dello Spirito, si unirono con tanta spontaneità e consonanza, da non lasciare adito a capire dove il naturale finisse e dove il soprannaturale iniziasse.
Il 1950 fu l’anno della sua conversione: da allora, questa giovanissima bellezza romagnola, che vedo in foto a bordo d’una Vespa, con una sciarpa rossa svolazzante, non si propose di fare altro che rispettare la volontà di Dio. Ora s’impegnava nelle opere di carità, ora si metteva a disposizione di chi aveva bisogno, ora sacrificandosi in un’intensa azione di apostolato.
E lo fece nella parrocchia, dove dal 1993 il suo corpo venerato riposa, tra le giovani, le fanciulle, i bambini, i giovani e gli uomini adulti. Arrivò al punto di offrire i suoi meravigliosi occhi scuri, solo che i genitori d’una bimba cieca l’avessero permesso, per restituirle la vista.
“Bastava esserle vicini per sentirsi più buoni”, raccontano le amiche degli anni giovanili, “da lei scaturiva un desiderio di cielo e purezza, attraverso le sue parole dolci, sicure, rasseneratrici. Faceva sentire che la sua gioia scaturiva dal possesso di Dio e che sentiva il bisogno di comunicare anche agli altri”.
Lei stessa, ad un’amica, così scriveva: “Penso che non sia necessario dirti la mia gioia, la pace e la serenità che possiedo. So di essere sposa di un Dio crocifisso e nulla mi spaventa né mi sorprende”.
Nel 1956, appena ventenne, annotava sul suo diario: “Il desiderio di amare Gesù lo sento tanto forte in me, che è un tormento continuo”.
Ma un male inesorabile era in agguato, il suo corpo martoriato ma dentro sentiva che Gesù l’aveva associata alla sua Passione. E, sul punto di spirare, illuminandosi in volto, trovò la forza di dire al sacerdote che l’assisteva:”Ecco, Gesù sta venendo a prendermi, mi sorride, arrivederci in cielo”.
Adesso, c’è chi vede in Carla Ronci una santa, che si batte perché la Chiesa avvii il processo di beatificazione, è nato un movimento, c’è un sito internet, attivamente impegnata è una signora di Ravenna, Graziella Goti, che raccoglie le testimonianze di chi, dall’incontro spirituale con Carla Ronci ha avuto il beneficio della grazia.
Torre Pedrera è un’altra tappa del cammino della Fede, anch’io spero d’andarci presto.
Voglio chiudere questo mio “incontro” con la venerabile Carla con una sua frase: “Sono contenta di tutto ciò che mi circonda, perché in tutte le cose scorgo un dono di Dio”.
Sono i pellegrini che vanno a pregare sulla tomba di una donna in odore di santità, che si chiamava Carla Ronci, nata a Rimini l’11 aprile del 1936, e che diede l’addio alla terra il 2 aprile del 1970, era una luminosa giornata di primavera.
Ho davanti la sua foto, inviatami da una coppia di cari amici, Angiolina e Giuliano Parmeggiani, conosciuti qualche anno fa ad Ischia, e con i quali abbiamo stabilito un rapporto di grande affetto e di condivisione delle idee sulla religione, sulla solidarietà, insomma sul modo che abbiamo in comune di concepire la vita di chi è davvero cristiano.
Questa che voglio raccontare agli affezionati lettori del mio blog, è la storia d’una di quelle ragazze in cui, alla bellezza fisica ed ai doni della natura, la ricchezza della grazia e i carismi dello Spirito, si unirono con tanta spontaneità e consonanza, da non lasciare adito a capire dove il naturale finisse e dove il soprannaturale iniziasse.
Il 1950 fu l’anno della sua conversione: da allora, questa giovanissima bellezza romagnola, che vedo in foto a bordo d’una Vespa, con una sciarpa rossa svolazzante, non si propose di fare altro che rispettare la volontà di Dio. Ora s’impegnava nelle opere di carità, ora si metteva a disposizione di chi aveva bisogno, ora sacrificandosi in un’intensa azione di apostolato.
E lo fece nella parrocchia, dove dal 1993 il suo corpo venerato riposa, tra le giovani, le fanciulle, i bambini, i giovani e gli uomini adulti. Arrivò al punto di offrire i suoi meravigliosi occhi scuri, solo che i genitori d’una bimba cieca l’avessero permesso, per restituirle la vista.
“Bastava esserle vicini per sentirsi più buoni”, raccontano le amiche degli anni giovanili, “da lei scaturiva un desiderio di cielo e purezza, attraverso le sue parole dolci, sicure, rasseneratrici. Faceva sentire che la sua gioia scaturiva dal possesso di Dio e che sentiva il bisogno di comunicare anche agli altri”.
Lei stessa, ad un’amica, così scriveva: “Penso che non sia necessario dirti la mia gioia, la pace e la serenità che possiedo. So di essere sposa di un Dio crocifisso e nulla mi spaventa né mi sorprende”.
Nel 1956, appena ventenne, annotava sul suo diario: “Il desiderio di amare Gesù lo sento tanto forte in me, che è un tormento continuo”.
Ma un male inesorabile era in agguato, il suo corpo martoriato ma dentro sentiva che Gesù l’aveva associata alla sua Passione. E, sul punto di spirare, illuminandosi in volto, trovò la forza di dire al sacerdote che l’assisteva:”Ecco, Gesù sta venendo a prendermi, mi sorride, arrivederci in cielo”.
Adesso, c’è chi vede in Carla Ronci una santa, che si batte perché la Chiesa avvii il processo di beatificazione, è nato un movimento, c’è un sito internet, attivamente impegnata è una signora di Ravenna, Graziella Goti, che raccoglie le testimonianze di chi, dall’incontro spirituale con Carla Ronci ha avuto il beneficio della grazia.
Torre Pedrera è un’altra tappa del cammino della Fede, anch’io spero d’andarci presto.
Voglio chiudere questo mio “incontro” con la venerabile Carla con una sua frase: “Sono contenta di tutto ciò che mi circonda, perché in tutte le cose scorgo un dono di Dio”.
28/10/08
ZANIN, IL FOTOGRAFO CHE CATTURA EMOZIONI
E’ lo sguardo di un uomo che racconta la vita nel suo scorrere, quello con cui Marcello Zanin ferma i personaggi di quella che oggi sembra una storia lontana, ma che invece racconta le radici profonde di ogni cittadino veneto.
Così Germana Urbani presenta il fotografo di Montegrotto, centro termale a pochi chilometri dalla più nota Abano, che in questi giorni sta tenendo la sua prima mostra nei locali d’una enoteca dove i visitatori, tra un bicchiere di prosecco e una fetta di soppressa, possono ammirare i suoi scatti tutti rigorosamente in bianco e nero.
Da dove vengo? Chi sono? Proprio per rispondere a queste domande, Marcello ha imbracciato la macchina fotografica e ha percorso a ritroso un tempo che era vivido di emozioni, gesti lenti, e ricco di gente con personalità forti e storie da raccontare.
Se ti chiedessi cosa fotografi, cosa mi risponderesti?
“Cerco di fermare soprattutto l’emozione che mi deriva dal territorio dove vivo, inteso sia come paesaggio naturale, sia come mondo di uomini. E’ una tensione continua, la mia, cerco di cogliere questo non so che emerge spesso dalla luce, improvviso. Per questo, mi piace fotografare in controluce. E’ una sfida, a volte mi sembra di cogliere ciò che rincorro, altre volte nello scatto sono più indeciso. E mi spiace, perché ciò che desidero maggiormente è che le mie istantanee siano fedeli proprio all’emozione che rincorro e che credo di aver catturato nel momento in cui ho scattato”.
Marcello Zanin (straordinaria la sua somiglianza con il fotoreporter reggino Franco Cufari) ama girare da solo per i paesi e le campagne euganee e le sue “prede” sono quasi sempre personaggi singoli: la contadina che impasta il pane, il cacciatore che torna in bicicletta con un fagiano appena catturato, il seminatore avvolto dalla nebbia.
A Zanin piace fotografare le mani, che crede siano una delle parti più sensuali della persona. I primi piani per lui sono difficili, prima che qualcuno ti regali la propria naturalezza, ci vuole tempo. Frammenti di vita vissuta, momenti di gioia e di dolore, di fatica e preghiera, insomma, che l’obiettivo fissa per sempre, in attesa di una prossima volta.
Così Germana Urbani presenta il fotografo di Montegrotto, centro termale a pochi chilometri dalla più nota Abano, che in questi giorni sta tenendo la sua prima mostra nei locali d’una enoteca dove i visitatori, tra un bicchiere di prosecco e una fetta di soppressa, possono ammirare i suoi scatti tutti rigorosamente in bianco e nero.
Da dove vengo? Chi sono? Proprio per rispondere a queste domande, Marcello ha imbracciato la macchina fotografica e ha percorso a ritroso un tempo che era vivido di emozioni, gesti lenti, e ricco di gente con personalità forti e storie da raccontare.
Se ti chiedessi cosa fotografi, cosa mi risponderesti?
“Cerco di fermare soprattutto l’emozione che mi deriva dal territorio dove vivo, inteso sia come paesaggio naturale, sia come mondo di uomini. E’ una tensione continua, la mia, cerco di cogliere questo non so che emerge spesso dalla luce, improvviso. Per questo, mi piace fotografare in controluce. E’ una sfida, a volte mi sembra di cogliere ciò che rincorro, altre volte nello scatto sono più indeciso. E mi spiace, perché ciò che desidero maggiormente è che le mie istantanee siano fedeli proprio all’emozione che rincorro e che credo di aver catturato nel momento in cui ho scattato”.
Marcello Zanin (straordinaria la sua somiglianza con il fotoreporter reggino Franco Cufari) ama girare da solo per i paesi e le campagne euganee e le sue “prede” sono quasi sempre personaggi singoli: la contadina che impasta il pane, il cacciatore che torna in bicicletta con un fagiano appena catturato, il seminatore avvolto dalla nebbia.
A Zanin piace fotografare le mani, che crede siano una delle parti più sensuali della persona. I primi piani per lui sono difficili, prima che qualcuno ti regali la propria naturalezza, ci vuole tempo. Frammenti di vita vissuta, momenti di gioia e di dolore, di fatica e preghiera, insomma, che l’obiettivo fissa per sempre, in attesa di una prossima volta.
24/10/08
MESSINA, SI RIPARLA DEL "VERMINAIO"
Si torna a parlare del caso Messina, del cosiddetto "verminaio dello Stretto". Lo fa, dopo un lungo silenzio dei media, seguito alla pubblicazione della relazione della commissione parlamentare antimafia, il settimanale Espresso, con una inchiesta sul suicidio del docente universitario Adolfo Parmaliana.
Ho vissuto in prima persona quei giorni convulsi della "visita" dell'Antimafia, sollecitata da un dossier dell'allora deputato di Rifondazione Niki Vendola che prendeva di mira, in particolare, il direttore del quotidiano egemone a Messina. Nino Calarco, che in verità non ebbe dalla redazione quella solidarietà che si aspettava, la prese malissimo. Per giorni e giorni se ne stette chiuso nella sua stanza, senza fare il consueto giro della redazioni: io e gli altri quadri del giornale, che avevamo responsabilità dei vari settori, entravamo per sottoporgli qualche questione, ma non avevamo il coraggio di affrontare l'argomento Vendola, mentre lo scritto del politico pugliese circolava tra le scrivanie.
Poi, col tempo, tutto continuò a scorrere come prima, mentre del "verminaio" si parlava sempre meno, fino a far calare la cortina del silenzio sulla città babba che però non era da tempo più tale.
Al giornale si erano vissuti momenti drammatici la sera in cui, decine e decine di agenti di polizia, dopo che era stata pubblicata la prima parte della relazione, fecero una perquisizione alla ricerca del documento "segreto" la cui copia da un tremebondo vice direttore (Calarco era fuori sede) venne prontamente consegnata.
Adesso che è passato molto tempo, e gli eventuali reati, ammesso che siano stati commessi, sono ampiamente prescritti, posso rivelare un retroscena.
Il collega e amico Nuccio Anselmo, cronista di giudiziaria, aveva promesso che si sarebbe procurato copia della relazione dell'Antimafia, ovviamente attesissima a Messina, e non solo dai giornalisti. Le ore passavano e la persona che aveva rassicurato Anselmo, il quale pregustava lo scoop, non si trovava. Vidi Nuccio in difficoltà e mi offrii di aiutarlo, a patto che trovasse qualcuno a Roma, in grado di recarsi a piazza San Macuto, sede dell'Antimafia, ricevere da un mio caro amico la sospirata copia, e inviarla via fax a Messina.
Nel giro di qualche minuto trovammo la persona, e le cartelle cominciarono ad arrivare, una dopo l'altra, per essere passate in tipografia. Il giorno dopo, si scatenò il putiferio. In città, ed anche nelle altre zone di diffusione della "Gazzetta" non si trovava una copia, i colleghi della cronaca furono tempestati di richieste da vari ambienti, Massoneria compresa, interessati a conoscere il secondo atto della storia, che non venne più pubblicato per ordine della magistratura.
La tragica vicenda del professor Parmaliana riporta all'attenzione nazionale Messina e gli intrecci tra magistratura, poteri occulti, mafia, informazione, investigatori "deviati". Stavolta, crediamo, il caso non verrà chiuso rapidamente perchè spesso il silenzio degli innocenti è quello che fa più rumore.
21/10/08
IL GRASSO FA MALE? NON E' PROPRIO VERO
Potrà sembrare strano, ma non sempre tutto ciò che è bianco vuol dire grasso. L’affermazione non è mia, appartiene ad un simpatico salumiere, con splendido negozio a due passi dalla stazione di Montegrotto Terme, il quale si diletta in studi e ricerche sulla qualità dei prodotti, in particolare i salumi, che offre ai suoi clienti, assieme a qualche nota da lui redatta con uno stile che oseremo dire, è giornalistico.
Per una produzione salumiera di qualità serve una carne con il grasso perimetrale (quello intorno alla massa muscolare e non intramuscolare, carne alla vista magra, ma ricca di grassi). Questo, sostiene l’amico salumiere-ricercatore per caso, identifica un suino che ha avuto una sana e naturale alimentazione.
Perché per mangiare magro bisogna che sia grasso?Per una produzione salumiera di qualità serve una carne con il grasso perimetrale (quello intorno alla massa muscolare e non intramuscolare, carne alla vista magra, ma ricca di grassi). Questo, sostiene l’amico salumiere-ricercatore per caso, identifica un suino che ha avuto una sana e naturale alimentazione.
Perché il suino italiano deve raggiungere un peso tra i 160 e i 180 chilogrammi in circa undici mesi di vita senza alimentazione “spinta” con una copertura di grasso non inferiore a 20 millimetri, misurata verticalmente presso la testa del femore.
Nel resto d’Europa, ha accertato questo salumaio (possiamo anche chiamarlo così) i suini sono macellati a pesi inferiori a 100 chilogrammi, quindi animali eccessivamente magri che tendono in fase di stagionatura a perdere troppa acqua e diventare così secchi e salati.
Per fare un prosciutto crudo di qualità, la coscia fresca deve avere un peso di circa 15 chili. In un buon prosciutto, infatti, la metà del tanto odiato grasso è costituito da acido oleico e il 12-15 per cento da acido linoleico, ritenuto importante nella prevenzione alimentare delle cardiopatie e dell’aterosclerosi.
E’ da tenere presente che, per quanto riguarda il prosciutto crudo, durante la stagionatura, le proteine vengono per la maggior parte scisse, come se fossero state predigerite.
Anche per un prosciutto cotto di prima qualità bisogna che ci sia un giusto strato di grasso di copertura che permette così di avere un’assenza di polifosfati, caseinati, latte in polvere, glutini e porcherie varie. Anche negli altri salumi, se la carne è di qualità, non servono diavolerie aromatizzanti.
Tutto questo, dice il salumiere di Montegrotto, non l’ho inventato io, ma è stato anche scritto da una studiosa di scienza delle preparazioni alimentari dell’università di Milano.
18/10/08
UN'ALTRA BUFALA....COSENTINA
C'è da restare veramente sconcertati di fronte alla leggerezza, chiamiamola così per carità di patria, con la quale certe notizie vengono "sbattute" in pagina e poi regolarmente smentite, come se non fosse accaduto nulla, giustificandosi con un puerile riferimento ad imprecisate fonti ufficiali.
Mi riferisco alla vicenda del signor Lo Giudice, titolare del ritrovo andato letteralmente distrutto qualche tempo fa nello spaventoso attentato di viale Moro, che ha provocato reazioni indignate, prese di posizione, queste sì, ufficiali, salvo poi cadere nel dimenticatoio. Ebbene, Lo Giudice è stato dato per "scomparso" e addirittura, il suo caso, neppure tanto velatamente, è stato accostato a quello di un giovane di Archi, appartenente, secondo i rapporti di polizia, a "famiglia" mafiosa, del quale si teme una tragica fine, con il sistema, d'importazione siciliana, della cosiddetta "lupara bianca".
Certamente non vogliamo gettare la croce addosso ai giovani colleghi, pagati a quattro soldi, del giornale che ha "sparato" la notizia e che è stato costretto, facendoci certo una pessima figura, a rimangiarsi tutto, usando il pretesto delle "fonti qualificate" che avrebbero soffiato all'incauto cronista il colossale bidone, che non è il primo e non sarà l'ultimo, se la nostra conoscenza di qualche personaggio che governa il giornale cosentino non ci inducesse ad essere pessimisti.
Basta leggere attentamente, soprattutto tra le righe, per capire qual è la "scuola" alla quale le giovani leve giornalistiche cittadine vengono allevate.
Non si può far credere, a chi questo mestiere vuol farlo sul serio, e soprattutto esclusivamente, senza impicciarsi in affari, affaroni, mediazioni, trattative, contatti politici, importanti Servizi, che la pagnotta si può guadagnarsela onestamente, facendo altrettanto onestamente il dovere del giornalista, che è principalmente quello di conquistare la credibilità.
Alla prossima bufala, che non è la pizza con la squisita mozzarella campana.
16/10/08
VORREI ESSERE UN MILIARDARIO INFELICE
Non ho mai amato il gioco, d'azzardo e non, pur avendo vissuto gli anni della giovinezza nelle redazioni e nelle tipografie dei giornali dove, nelle lunghe ore d'attesa per la chiusura delle pagine, si giocava, giornalisti e tipografi, un'alleanza che, dal punto di vista sindacale, faceva paura agli editori.
Da quando le tipografie sono diventate come la sala d'aspetto d'un ospedale, tutta plastica e bianco, a seguito della scomparsa del piombo e dell'introduzione del computer, ognuno finito il suo turno, che non si conclude più, all'alba, come una volta, se ne va a casa, senza neppure aver bisogno di cambiarsi.
Il tipografo nuova generazione lavora in giacca e cravatta e non si sporca le mani, ma è una specie ormai in estinzione, tra una ristrutturazione e l'altra.
Ho conosciuto colleghi che si sono giocati una fortuna e che, a fine mese, erano costretti a chiedere prestiti, per portare da mangiare a casa, lo stipendio, infatti, se l'erano giocato tutto.
Io, al massimo, mi sono concesso qualche partita a briscola, con la solita birra in palio, oppure ho giocato ai cavalli o al Lotto in società con altri, riuscendo in qualche occasione a vincere qualche sommetta.
Da qualche tempo, sarà per il clima che si vive a Roma in questo periodo con il Superenalotto milionario, ci ho preso gusto a riempire le schedine con i sei numeri che, se li azzecchi, ti ritrovi dalla sera alla mattina novello Paperon dei Paperoni. Oggi ho giocato un sistema, chiamato Il Mito, siamo in dieci, dopo tutto, sette-otto milioni a testa ci farebbero stare meglio. O no?. Per scherzo, usavo dire a un caro collega che si lamentava spesso, che vincendo una grossa somma avrebbe corso il rischio di diventare un miliardario infelice. Meglio povero, ma felice. Ho ancora nelle orecchie i suoi vaffa. Ora, però, questo rischio dell'infelicità lo sto correndo anch'io.
14/10/08
LA MERAVIGLIOSA AVVENTURA DEL GIORNALE DI CALABRIA
Questo articolo è stato pubblicato da L'Avanti, ex glorioso giornale socialista che il suo nuovo editore ha portato, da qualche anno, su posizioni politiche vicine al centrodestra, affidandone la direzione a un giovane professionista, Fabio Ranucci. Io vi collaboro non senza qualche emozione, al solo pensare agli uomini che vi hanno scritto o che lo hanno diretto, a cominciare da Sandro Pertini, ineguagliabile presidente della repubblica.
Aprile 1972, una primavera densa di speranze per la Calabria ancora scossa dai tragici eventi di Reggio, dove la cosiddetta “rivolta per il capoluogo” aveva portato lutti e divisioni, grosse difficoltà all’interno dei partiti, il governo della Regione a Catanzaro, il consiglio a Reggio Calabria, nel nome di un compromesso che aveva finito con il lasciare tutti scontenti.
In quei giorni, a due anni dalla chiusura della “Tribuna del Mezzogiorno”, nasceva un altro quotidiano che, stavolta, non partiva dalla Sicilia, ma aveva la sua “testa” nella Calabria, da sempre suddita, in tema d’informazione, di quella Sicilia divisa da un solco di mare sul quale avrebbe dovuto svettare l’agognato Ponte sullo Stretto.
Il Giornale di Calabria, stampato inizialmente a Roma, apparve nelle edicole il primo giorno d’aprile, fatto da calabresi per i calabresi, come recitava lo slogan sui manifesti che, a Reggio Calabria, vennero quasi tutti strappati.
E un motivo c’era: tutti sapevano che dietro questo ambizioso progetto editoriale, finanziato dalla Sir di Rovelli, con interessi nella Piana lametina, c’era Giacomo Mancini che da ministro della Sanità prima e dei Lavori Pubblici poi, tanto aveva fatto per la sua terra, ma i protagonisti dei fatti di Reggio Calabria gli avevano scatenato contro una vera e propria campagna d’odio, nella quale si distinse, in particolare, il settimanale fascista “Candido” diretto da Giorgio Pisanò, ex repubblichino, e personaggio a dir poco discutibile.
Quando il nuovo quotidiano, con una veste grafica moderna, vide la luce, il fantoccio raffigurante Mancini, assieme a quello di Misasi, pendeva ancora da qualche parte nella infuocata periferia reggina, teatro di scontri violenti con le forze dell’ordine costrette ad usare tutti i mezzi, blindati compresi, per spegnere il fuoco della rivolta.
Non fu un inizio facile, quindi, per il manipolo di giovani giornalisti, o aspiranti tali, che il capo redattore della Rai, Enzo Arcuri, reclutò, non tenendo conto, e questo va a suo merito, dell’appartenenza politica, ma cercando sul territorio qualche promessa. Bisogna dire che i fatti, tranne qualche ovvia eccezione, gli diedero ragione.
Chi scrive, era reduce dalla chiusura della “Tribuna”, che ormai aveva insidiato la leadership di Gazzetta del Sud, al punto da indurre l’editore Bonino a cedere un bel pacchetto d’azioni al cementiere Pesenti, che puntava alle forniture per il Ponte. Lavoravo in un settimanale edito dall’armatore Amedeo Matacena, assieme ad altri colleghi che non avevano scelto la strada dell’emigrazione, non avevo certo le migliori credenziali (Matacena veniva indicato, e per questo era anche finito in carcere, quale uno dei finanziatori della rivolta) per entrare nella redazione del foglio qualificato come “manciniano” e osteggiato anche da una parte dello stesso Psi.
Da Roma, perché in Calabria i professionisti non c’erano, arrivarono colleghi di provato valore come Lorenzo Salvini e Paolo Guzzanti, altri meno validi che poi si persero per strada, praticanti come me e altri calabresi, erano anche Pietro Mancini, Agostino Saccà e Mimmo Liguoro, le redazioni distaccate erano oltre che a Cosenza città, anche a Catanzaro e Reggio Calabria.
Fu dopo l’apertura dello stabilimento tipografico di Pian del Lago, a pochi chilometri da Cosenza, lungo quell’autostrada Salerno-Reggio Calabria fortemente voluta da
Mancini, che il primo gruppo di giovani giornalisti riuscì, non senza difficoltà, (la Calabria dipendeva dall’Ordine di Napoli) ad affrontare gli esami di Stato.
La cavalcata durò otto anni e mezzo, di quella redazione tanti sono ancora in attività, c’è chi ha fatto carriera, come Antonio Di Rosa, Francesco Faranda, Domenico Logozzo, Daniela Romiti, chi si è ritagliato spazi professionali importanti come Pantaleone Sergi, Luigi Piccitto, Raffaele Malito, Tonino Raffa, Pietro Melia, Antonio Scura, Santi Trimboli.
Ci hanno lasciato colleghi come Enzo Costabile, Michelangelo Napoletano, Giovanni Indrieri, Renato Mantelli, e lo stesso direttore, Piero Ardenti, cui tutti noi reduci da quell’indimenticabile esperienza dobbiamo qualcosa.
Di Mancini…..editore si può dire che il suo fu un amore importante per questa creatura che era “u giurnale” come usava chiamarlo in dialetto cosentino, e che mai esercitò pressioni, non impose a forza assunzioni e ruoli, non fu abbastanza deciso, a nostro avviso, quando bisognava usare il pugno duro. Forse, il Giornale di Calabria, non avrebbe alzato bandiera bianca, qualcuno disse perché lo stesso Mancini aveva preferito uccidere il neonato nella culla, pur di non farlo finire in mani “nemiche”.
Dovranno passare ben quindici anni, prima che la Calabria veda presenti nelle edicole un quotidiano tutto calabrese (ora ve ne sono ben quattro) ma il ricordo del “giornale di Mancini”, diventato una palestra per tanti giovani professionisti, resta vivo nella memoria dei cittadini che, per anni hanno seguito le battaglie politiche e civili, contro la criminalità, i poteri occulti, la classe politica inetta, portate avanti ogni giorno su quelle pagine stampate, per la prima volta un giorno di luglio, mentre una insolita nebbia avvolgeva Piano Lago. Qualcuno disse che lì intorno si aggirava l’ombra di Alarico, il re visigoto seppellito col suo tesoro nel greto del Busento, e mai ritrovato. Forse, che Ardenti ne sfruttasse il nome come pseudonimo per i suoi graffianti corsivi, lo aveva irritato.
Aprile 1972, una primavera densa di speranze per la Calabria ancora scossa dai tragici eventi di Reggio, dove la cosiddetta “rivolta per il capoluogo” aveva portato lutti e divisioni, grosse difficoltà all’interno dei partiti, il governo della Regione a Catanzaro, il consiglio a Reggio Calabria, nel nome di un compromesso che aveva finito con il lasciare tutti scontenti.
In quei giorni, a due anni dalla chiusura della “Tribuna del Mezzogiorno”, nasceva un altro quotidiano che, stavolta, non partiva dalla Sicilia, ma aveva la sua “testa” nella Calabria, da sempre suddita, in tema d’informazione, di quella Sicilia divisa da un solco di mare sul quale avrebbe dovuto svettare l’agognato Ponte sullo Stretto.
Il Giornale di Calabria, stampato inizialmente a Roma, apparve nelle edicole il primo giorno d’aprile, fatto da calabresi per i calabresi, come recitava lo slogan sui manifesti che, a Reggio Calabria, vennero quasi tutti strappati.
E un motivo c’era: tutti sapevano che dietro questo ambizioso progetto editoriale, finanziato dalla Sir di Rovelli, con interessi nella Piana lametina, c’era Giacomo Mancini che da ministro della Sanità prima e dei Lavori Pubblici poi, tanto aveva fatto per la sua terra, ma i protagonisti dei fatti di Reggio Calabria gli avevano scatenato contro una vera e propria campagna d’odio, nella quale si distinse, in particolare, il settimanale fascista “Candido” diretto da Giorgio Pisanò, ex repubblichino, e personaggio a dir poco discutibile.
Quando il nuovo quotidiano, con una veste grafica moderna, vide la luce, il fantoccio raffigurante Mancini, assieme a quello di Misasi, pendeva ancora da qualche parte nella infuocata periferia reggina, teatro di scontri violenti con le forze dell’ordine costrette ad usare tutti i mezzi, blindati compresi, per spegnere il fuoco della rivolta.
Non fu un inizio facile, quindi, per il manipolo di giovani giornalisti, o aspiranti tali, che il capo redattore della Rai, Enzo Arcuri, reclutò, non tenendo conto, e questo va a suo merito, dell’appartenenza politica, ma cercando sul territorio qualche promessa. Bisogna dire che i fatti, tranne qualche ovvia eccezione, gli diedero ragione.
Chi scrive, era reduce dalla chiusura della “Tribuna”, che ormai aveva insidiato la leadership di Gazzetta del Sud, al punto da indurre l’editore Bonino a cedere un bel pacchetto d’azioni al cementiere Pesenti, che puntava alle forniture per il Ponte. Lavoravo in un settimanale edito dall’armatore Amedeo Matacena, assieme ad altri colleghi che non avevano scelto la strada dell’emigrazione, non avevo certo le migliori credenziali (Matacena veniva indicato, e per questo era anche finito in carcere, quale uno dei finanziatori della rivolta) per entrare nella redazione del foglio qualificato come “manciniano” e osteggiato anche da una parte dello stesso Psi.
Da Roma, perché in Calabria i professionisti non c’erano, arrivarono colleghi di provato valore come Lorenzo Salvini e Paolo Guzzanti, altri meno validi che poi si persero per strada, praticanti come me e altri calabresi, erano anche Pietro Mancini, Agostino Saccà e Mimmo Liguoro, le redazioni distaccate erano oltre che a Cosenza città, anche a Catanzaro e Reggio Calabria.
Fu dopo l’apertura dello stabilimento tipografico di Pian del Lago, a pochi chilometri da Cosenza, lungo quell’autostrada Salerno-Reggio Calabria fortemente voluta da
Mancini, che il primo gruppo di giovani giornalisti riuscì, non senza difficoltà, (la Calabria dipendeva dall’Ordine di Napoli) ad affrontare gli esami di Stato.
La cavalcata durò otto anni e mezzo, di quella redazione tanti sono ancora in attività, c’è chi ha fatto carriera, come Antonio Di Rosa, Francesco Faranda, Domenico Logozzo, Daniela Romiti, chi si è ritagliato spazi professionali importanti come Pantaleone Sergi, Luigi Piccitto, Raffaele Malito, Tonino Raffa, Pietro Melia, Antonio Scura, Santi Trimboli.
Ci hanno lasciato colleghi come Enzo Costabile, Michelangelo Napoletano, Giovanni Indrieri, Renato Mantelli, e lo stesso direttore, Piero Ardenti, cui tutti noi reduci da quell’indimenticabile esperienza dobbiamo qualcosa.
Di Mancini…..editore si può dire che il suo fu un amore importante per questa creatura che era “u giurnale” come usava chiamarlo in dialetto cosentino, e che mai esercitò pressioni, non impose a forza assunzioni e ruoli, non fu abbastanza deciso, a nostro avviso, quando bisognava usare il pugno duro. Forse, il Giornale di Calabria, non avrebbe alzato bandiera bianca, qualcuno disse perché lo stesso Mancini aveva preferito uccidere il neonato nella culla, pur di non farlo finire in mani “nemiche”.
Dovranno passare ben quindici anni, prima che la Calabria veda presenti nelle edicole un quotidiano tutto calabrese (ora ve ne sono ben quattro) ma il ricordo del “giornale di Mancini”, diventato una palestra per tanti giovani professionisti, resta vivo nella memoria dei cittadini che, per anni hanno seguito le battaglie politiche e civili, contro la criminalità, i poteri occulti, la classe politica inetta, portate avanti ogni giorno su quelle pagine stampate, per la prima volta un giorno di luglio, mentre una insolita nebbia avvolgeva Piano Lago. Qualcuno disse che lì intorno si aggirava l’ombra di Alarico, il re visigoto seppellito col suo tesoro nel greto del Busento, e mai ritrovato. Forse, che Ardenti ne sfruttasse il nome come pseudonimo per i suoi graffianti corsivi, lo aveva irritato.
13/10/08
VIAGGIO TRA LE DOLCI COLLINE TOSCANE
Vado spesso in Toscana, appena posso, e preferisco il Grossetano e l'Argentario. Porto Santo Stefano, per il mare, Saturnia per le terme, ma anche i paesini della cosiddetta strada del vino sono stupendi.
Girando per le numerose cantine della zona, puoi trovare un gran rosso, che è il morellino di Scanzano, e anche un bianco che non tutti conoscono, ma che viene considerato tra i primi in Italia, il bianco di Pitigliano. E poi l'olio, il formaggio, in gran parte lavorato dai pastori sardi che in questa parte della Toscana si sono insediati, e qualche danno l'hanno fatto anni fa, all'epoca dei sequestri di persona, per fortuna oggi finiti.
Quello che ti colpisce, da queste parti, è la grande tranquillità, non vedi, come da noi, un assiduo controllo del territorio da parte delle forze di polizia, nessun posto di blocco, tutto sotto controllo perchè, dicono, la mafia qui non c'è, anche se, da qualche tempo, episodi strani cominciano a verificarsi.
Ho potuto accertarlo di persona, andando verso la grande tenuta delle Macchie Alte, più di 400 ettari, ora trasformata in agriturismo dall'amico Gianni, che accoglie gli ospiti preparando una straordinaria acqua cotta, che una volta era il pasto povero dei boscaioli, e che ora è piatto di lusso.
Lungo la strada, infatti, ho avuto modo di notare una bella casetta tutta in legno, ancora circondata dalle impalcature, quasi totalmente distrutta dal fuoco: ho chiesto a qualcuno, poi ho dato uno sguardo alla cronaca locale della Nazione, due colonne per dare la notizia di questo incendio, forse di natura dolosa. La villetta è stata realizzata da un'impresa non del luogo per conto di un architetto senese. I carabinieri, stando a quanto si legge sul giornale, seguono qualche pista, ma nessuno sembra preoccuparsi più di tanto. Anche qui, in quest'isola felice, cominciano a vedersi questo tipo d'intimidazioni? Me lo sono chiesto, da toscano ad honorem, perchè mi dispiacerebbe davvero tanto se certe pessime abitudini, chiamiamole così, dovessero essere "esportate".
11/10/08
STATALE 106 DOVE LA MORTE E' SEMPRE IN AGGUATO
Di fronte all'ennesimo incidente mortale su quella che ormai da tutti è conosciuta come la strada della morte, ci induce a qualche riflessione, considerato che, dopo le reazioni nell'immediatezza, le considerazioni di maniera e le promesse d'interventi che non verranno mai fatti, è giunto il momento di fare qualche proposta.
Innanzi tutto, c'è da far capire, a suon di multe, previa l'installazione di adeguata segnaletica, che la 106 non è nè un'autostrada nè una superstrada, per cui valgono i limiti imposti dal Codice per le strade cittadine, cioè i 50 chilometri orari.
E' accaduto, in questi anni di frenetico e disordinato sviluppo urbanistico della zona a sud della città, che moltissimi siano gli svincoli privati, cioè gli accessi alla strada statale 106 da parte di chi ha realizzato complessi abitativi o normali residenze singole. Da ogni lato, quindi, ci si immette, con grandissimo rischio, considerato che trattasi di arteria a doppio senso e che quasi nessuno rispetta i limiti di velocità.
Una attività di prevenzione prima e di repressione, poi, da parte di pattuglie di vigili, polizia stradale, carabinieri, guardia di finanza, si rende a questo punto indispensabile, se si vuole fermare la strage.
Quasi sempre, infatti, la causa degli incidenti è l'alta velocità, per cui dissuasori ed altri semafori potrebbero servire allo scopo. Poi, impedire l'uso di accessi abusivi e la sistemazione delle banchine laterale con protezioni per i pedoni e i ciclisti. Ma forse perchè qualcuno si decida a farlo occorreranno altre vittime.
Innanzi tutto, c'è da far capire, a suon di multe, previa l'installazione di adeguata segnaletica, che la 106 non è nè un'autostrada nè una superstrada, per cui valgono i limiti imposti dal Codice per le strade cittadine, cioè i 50 chilometri orari.
E' accaduto, in questi anni di frenetico e disordinato sviluppo urbanistico della zona a sud della città, che moltissimi siano gli svincoli privati, cioè gli accessi alla strada statale 106 da parte di chi ha realizzato complessi abitativi o normali residenze singole. Da ogni lato, quindi, ci si immette, con grandissimo rischio, considerato che trattasi di arteria a doppio senso e che quasi nessuno rispetta i limiti di velocità.
Una attività di prevenzione prima e di repressione, poi, da parte di pattuglie di vigili, polizia stradale, carabinieri, guardia di finanza, si rende a questo punto indispensabile, se si vuole fermare la strage.
Quasi sempre, infatti, la causa degli incidenti è l'alta velocità, per cui dissuasori ed altri semafori potrebbero servire allo scopo. Poi, impedire l'uso di accessi abusivi e la sistemazione delle banchine laterale con protezioni per i pedoni e i ciclisti. Ma forse perchè qualcuno si decida a farlo occorreranno altre vittime.
10/10/08
L' HOSPICE, UN MIRACOLO QUOTIDIANO
L'articolo che state per leggere fa parte d'una inchiesta, che ho allegato di seguito, pubblicata nel numero di Novembre del mensile cattolico Messaggero di Sant'Antonio, che stampa un milione di copie. Le foto sono del grande fotoreporter Rosario Cananzi, col quale ho diviso per anni straordinarie esperienze di lavoro e col quale ancora di tanto in tanto mi rituffo nel mestieraccio che mi ha accompagnato per più di quarant'anni. Invito tutti a leggere su Strill, il quotidiano on line diretto da Giusva Branca, e col quale collaboro, la riproduzione totale dell'inchiesta e a cercare in edicola e nelle chiese il Messaggero.
Via delle stelle è una stradina del quartiere San Sperato, periferia sud di Reggio Calabria, che nessuno conosceva, fino ad un anno fa, quando venne inaugurato l’Hospice, un edificio a quattro piani, con ampie terrazze, una scala a vista, e le stanze luminose. Attorno, tra qualche palazzo signorile, tante case cominciate e non finite, tirate su un po’ alla volta, quassù la ricchezza non è visibile.
E quassù, pian piano, è arrivata tanta gente che aveva perso ogni speranza e che, nell’Hospice, ha trascorso gli ultimi giorni di vita, consumati da quei mali che nel crudo linguaggio dei cronisti vengono definiti con una sola, agghiacciante, parola:.incurabili.
La gratitudine di tante famiglie, in questi dodici mesi d’attività, i numeri importanti per presenze e operatività, testimoniano quanto sia diventato essenziale questo che non è soltanto un luogo di dolore, chi ci lavora non accompagna gli ammalati verso una fine già decisa, il compimento d’un destino inesorabile.
Ogni anno, recitano nel loro spietato linguaggio le statistiche, sono 250 mila le persone che, nel nostro Paese, imboccano la strada, quasi mai senza uscita (se avviene il contrario è solo perché c’è stato un miracolo) della fase terminale di un tumore.
Gli hospice in altre parti d’Italia esistono da tempo, qui in Calabria ciò che è stato realizzato nella città dello Stretto ha veramente dell’eccezionale.
Il dramma di chi diventa malato terminale, si riflette principalmente sulle famiglie, quasi il 50 per cento dei familiari è costretto a cambiare radicalmente vita, a modificare gli impegni professionali o di lavoro, se non ad interromperlo. Tutto ciò per stare vicino a chi si ama, nei momenti conclusivi d’una esistenza spesso segnata da sofferenze indicibili.
Non c’è stata una vera e propria festa, per il primo compleanno dell’Hospice reggino, anche perché gli ultimi mesi sono stati drammatici, la chiusura è sembrata ad un certo punto inevitabile, vista l’insensibilità di chi avrebbe dovuto provvedere al necessario sostegno economico.
Ma la città ha avuto uno scatto d’orgoglio, tutti si sono mossi, con raccolta spontanea di offerte, interventi politici, la Chiesa non è stata a guardare, ma lo ha fatto con grande discrezione, senza entrare nel merito del conflitto tra istituzioni, tenendosi lontana dalle polemiche e collegandosi, sempre senza fare troppo rumore, con quelle associazioni cristiane, con quei gruppi della società civile che hanno sposato la causa di questa struttura.
E l’Hospice è lì, i servizi vengono ancora garantiti, pur se le difficoltà non sono cessate.
Le cure cosiddette palliative sono adesso riconosciute come livello essenziale di assistenza.
Le persone che vi lavorano, nella quasi totalità volontari, hanno accolto quasi un centinaio di persone “licenziate” dagli ospedali, che hanno così anche risparmiato mezzo milione di euro.
Un’attività incessante, come spiegano le dottoresse Paola Serranò e Ines Barbera, concentrate in assistenza domiciliare, ricoveri diurni, che sono di grande sollievo al malato oncologico, ambulatorio.
Se questa straordinaria struttura, in una città con tanti problemi e con una sanità che fa giornalmente i conti con un “buco nero” di debiti milionari, è andata avanti, lo si deve alla caparbietà con cui i rappresentanti della cooperativa “La via delle stelle”, Agostino Laruffa e Luciano Squillaci, hanno affrontato ogni sorta d’ostacoli, grazie anche all’indispensabile apporto di un ostinato gruppo di volontariato.
Nicola Saggese, il loro responsabile, definisce queste persone che ogni giorno spendono il loro tempo nell’Hospice, coloro che “si sporcano le mani con il dolore”.
“Chi soffre, ha dichiarato a Domenico Grillone, che lo ha intervistato per un quotidiano locale, è sempre preda di timori, si sente incapace e con la tentazione di lasciarsi andare”.
Tanti piccoli eroi, insomma, che giornalmente sono i compagni di viaggio di chi sta per andare via, per sempre.
In questo luogo di sofferenza, che si erge in un quartiere desolato, dove il degrado si tocca con mano e l’incuria degli amministratori e degli abitanti hanno trasformato in una babele urbanistica, si riscopre la dimensione dell’uomo. Non a caso, il nuovo direttore sanitario dell’azienda ospedaliera reggina, venuto dal Nord, Enzo Rupeni, ha definito l’Hospice di via delle stelle uno dei migliori tra quelli da lui conosciuti e, addirittura, migliore di uno da lui stesso progettato.
Dopo un anno di sofferenze, di promesse non mantenute, di battaglie contro la burocrazia, finalmente s’intravede uno spiraglio confortante: il ministero della salute ha stanziato i fondi per la formazione del personale dell’Hospice . C’è stato chi si è prodigato per ottenere questo risultato, ma è voluto rimanere nell’ombra, come è giusto, la solidarietà non ha bisogno di spot pubblicitari. E ogni giorno c’è chi continua a imboccare la via delle stelle.
E quassù, pian piano, è arrivata tanta gente che aveva perso ogni speranza e che, nell’Hospice, ha trascorso gli ultimi giorni di vita, consumati da quei mali che nel crudo linguaggio dei cronisti vengono definiti con una sola, agghiacciante, parola:.incurabili.
La gratitudine di tante famiglie, in questi dodici mesi d’attività, i numeri importanti per presenze e operatività, testimoniano quanto sia diventato essenziale questo che non è soltanto un luogo di dolore, chi ci lavora non accompagna gli ammalati verso una fine già decisa, il compimento d’un destino inesorabile.
Ogni anno, recitano nel loro spietato linguaggio le statistiche, sono 250 mila le persone che, nel nostro Paese, imboccano la strada, quasi mai senza uscita (se avviene il contrario è solo perché c’è stato un miracolo) della fase terminale di un tumore.
Gli hospice in altre parti d’Italia esistono da tempo, qui in Calabria ciò che è stato realizzato nella città dello Stretto ha veramente dell’eccezionale.
Il dramma di chi diventa malato terminale, si riflette principalmente sulle famiglie, quasi il 50 per cento dei familiari è costretto a cambiare radicalmente vita, a modificare gli impegni professionali o di lavoro, se non ad interromperlo. Tutto ciò per stare vicino a chi si ama, nei momenti conclusivi d’una esistenza spesso segnata da sofferenze indicibili.
Non c’è stata una vera e propria festa, per il primo compleanno dell’Hospice reggino, anche perché gli ultimi mesi sono stati drammatici, la chiusura è sembrata ad un certo punto inevitabile, vista l’insensibilità di chi avrebbe dovuto provvedere al necessario sostegno economico.
Ma la città ha avuto uno scatto d’orgoglio, tutti si sono mossi, con raccolta spontanea di offerte, interventi politici, la Chiesa non è stata a guardare, ma lo ha fatto con grande discrezione, senza entrare nel merito del conflitto tra istituzioni, tenendosi lontana dalle polemiche e collegandosi, sempre senza fare troppo rumore, con quelle associazioni cristiane, con quei gruppi della società civile che hanno sposato la causa di questa struttura.
E l’Hospice è lì, i servizi vengono ancora garantiti, pur se le difficoltà non sono cessate.
Le cure cosiddette palliative sono adesso riconosciute come livello essenziale di assistenza.
Le persone che vi lavorano, nella quasi totalità volontari, hanno accolto quasi un centinaio di persone “licenziate” dagli ospedali, che hanno così anche risparmiato mezzo milione di euro.
Un’attività incessante, come spiegano le dottoresse Paola Serranò e Ines Barbera, concentrate in assistenza domiciliare, ricoveri diurni, che sono di grande sollievo al malato oncologico, ambulatorio.
Se questa straordinaria struttura, in una città con tanti problemi e con una sanità che fa giornalmente i conti con un “buco nero” di debiti milionari, è andata avanti, lo si deve alla caparbietà con cui i rappresentanti della cooperativa “La via delle stelle”, Agostino Laruffa e Luciano Squillaci, hanno affrontato ogni sorta d’ostacoli, grazie anche all’indispensabile apporto di un ostinato gruppo di volontariato.
Nicola Saggese, il loro responsabile, definisce queste persone che ogni giorno spendono il loro tempo nell’Hospice, coloro che “si sporcano le mani con il dolore”.
“Chi soffre, ha dichiarato a Domenico Grillone, che lo ha intervistato per un quotidiano locale, è sempre preda di timori, si sente incapace e con la tentazione di lasciarsi andare”.
Tanti piccoli eroi, insomma, che giornalmente sono i compagni di viaggio di chi sta per andare via, per sempre.
In questo luogo di sofferenza, che si erge in un quartiere desolato, dove il degrado si tocca con mano e l’incuria degli amministratori e degli abitanti hanno trasformato in una babele urbanistica, si riscopre la dimensione dell’uomo. Non a caso, il nuovo direttore sanitario dell’azienda ospedaliera reggina, venuto dal Nord, Enzo Rupeni, ha definito l’Hospice di via delle stelle uno dei migliori tra quelli da lui conosciuti e, addirittura, migliore di uno da lui stesso progettato.
Dopo un anno di sofferenze, di promesse non mantenute, di battaglie contro la burocrazia, finalmente s’intravede uno spiraglio confortante: il ministero della salute ha stanziato i fondi per la formazione del personale dell’Hospice . C’è stato chi si è prodigato per ottenere questo risultato, ma è voluto rimanere nell’ombra, come è giusto, la solidarietà non ha bisogno di spot pubblicitari. E ogni giorno c’è chi continua a imboccare la via delle stelle.
LA CALABRIA RACCONTATA DA ME.....A SANT'ANTONIO
Questo è il testo di una mia inchiesta che è pubblicata nel numero di Novembre del Messaggero di Sant'Antonio, mensile cattolico diffuso in tutto il mondo con una tiratura di un milione di copie. Spero faccia piacere ai miei 25 lettori, per dirla col Manzoni, che mi onorano della loro quotidiana attenzione, Che crepino gli invidiosi!.
La Calabria delle speranze deluse, delle promesse non mantenute, della criminalità sempre più violenta, delle migliaia di disoccupati, dello sfascio ambientale, della politica litigiosa.
Ma anche la Calabria delle intelligenze esportate, delle grandi risorse artistiche e archeologiche, del mare splendido, della montagna con la sua bellezza selvaggia, degli scienziati in ogni campo, dalla fisica alla medicina.
Una terra tanto bella quanto sfortunata, tra terremoti, guerre, invasioni, alluvioni, epidemie che non hanno piegato la sua gente, sempre pronta a ricominciare, spinta da un innato fatalismo che la penna di grandi scrittori ha saputo mirabilmente descrivere.
Il calabrese, come diceva Corrado Alvaro, s’accontenta di poco, basta sapergli parlare, ed è ancora così come la videro i grandi viaggiatori e pensatori del passato, da Norman Douglas a Gioacchino da Fiore, da Tommaso Campanella, a Leonida Repaci ,da Edward Lear (memorabile il suo diario d’un viaggio a piedi) e Bernard Berenson.
Tra poche luci e molte ombre si va avanti. Negli ultimi anni, poi, i segni d’un cambiamento si sono visti, l’emigrazione s’è ridotta, qualche industria ha chiuso, ma qualche altra è nata, in alcuni settori, come confermano gli indici economici più recenti, la ripresa è evidente. Soprattutto, si sono intravisti segnali incoraggianti per quanto riguarda la presa di coscienza della gente per cui vivere nella legalità, a lungo andare, paga. Un esempio formidabile è venuto dalla Chiesa, da quella di provincia in particolare, le cooperative create dal vescovo Giancarlo Bregantini, che purtroppo ha lasciato la Calabria, hanno fatto scuola, l’esempio è stato seguito altrove. Una regione che ha rialzato la testa e che spera negli aiuti europei per rilanciare il turismo, migliorare le comunicazioni, creare occupazione, impedire l’emigrazione intellettuale. C’è poi da recuperare per attività legali l’enorme mole di beni sequestrati alla mafia, per milioni di euro. Qualcosa si sta facendo, ma ci sono ancora tanti ostacoli da superare. Gli amministratori devono capire che solo così la Calabria potrà diventare la California del Mediterraneo.
Catanzaro è il capoluogo di regione, un “pennacchio” per i reggini che hanno vissuto la rivolta popolare degli anni Settanta, un simbolo per gli abitanti della città dei tre colli, come viene chiamata, per la sua posizione che, fino a qualche anno fa, la rendeva quasi simile ad un nido di aquile.
Ora, grazie ad un reticolo di viadotti e svincoli che la collegano all’autostrada, Catanzaro si è sviluppata ed è andata nel tempo perdendo la fisionomia di capitale burocratica della regione. Infatti, nella zona di Marcellinara ha preso man mano corpo un agglomerato industriale di tutto rispetto, a pochi passi dall’aeroporto internazionale di Lamezia Terme, uno dei più sicuri d’Italia, in continuo aumento di passeggeri e di collegamenti.
Catanzaro è anche la sede del governo regionale che, dopo le elezioni di tre anni fa, è nelle mani di Agazio Loiero, ex democristiano avvicinatosi col tempo sempre più alla sinistra, anche se forte di un consenso personale ragguardevole. Intellettuale della Magna Grecia, per dirla col presidente Cossiga, il presidente della Giunta sta cercando di togliere dalle secche la navicella regionale, anche se i risultati, come ama spesso ripetere, li raccoglierà chi verrà dopo di lui che, in verità, ha dovuto più volte rimpastare l’esecutivo al punto da meritarsi la caustica definizione di Giunta…autobus, ogni tanto scende un assessore, e sale un altro.
Il fiore all’occhiello di Catanzaro, ma anche dell’intera Calabria, dovrebbe essere la cittadella regionale, un complesso mastodontico nel quale verrebbero riuniti tutti gli uffici e le strutture della Regione, risparmiando milioni di euro di affitti e consentendo uno snellimento delle procedure burocratiche con tutti gli assessorati in rete.
La cittadella è stata il cavallo di battaglia di Loiero, durante la campagna elettorale, dopo un quinquennio non proprio esaltante del governo di Giuseppe Chiaravalloti, ex magistrato nelle grazie di Silvio Berlusconi.
L’altro asso nella manica del governatore, che però corre il rischio di doversi trasformare in un boomerang, è la sponsorizzazione, costo otto milioni di euro, della Nazionale di calcio. L’U E, è notizia di questi giorni, avrebbe però trovato da ridire su come verrebbero spesi questi fondi europei. Qualcuno sostiene che si tratta di soldi destinati ad opere pubbliche e “distratti” per dare una lustrata all’immagine con il calabrese Gattuso testimonial .
All’estero, ci conferma la giornalista del The Wall Street Juornal, Deborah Ball, queste cose non piacciono molto. “Sto facendo un giro nella regione, ci dice, e sto anche scrivendo un libro sulla figura del grande stilista reggino Gianni Versace. Debbo confermare l’impressione favorevole che Reggio mi ha fatto, rispetto ad un recente passato, ma già dall’epoca Falcomatà c’era stata una svolta, dopo anni difficili. Certo, la gente è ancora chiusa, il calabrese, forse per ataviche diffidenze, è restio ad aprirsi al forestiero e non accetta volentieri intromissioni nella vita quotidiana, è assai difficile avere informazioni per chi voglia condurre un’inchiesta, all’americana, appunto. Alla Provincia, già governata dalla destra, è arrivata una donna assai battagliera, Wanda Ferro, di An, alla quale è affidato il compito di proseguire l’opera dell’attivo compagno di partito Michele Traversa.
I programmi sono interessanti, anche perché alle donne ed ai giovani sono riservati spazi importanti, ma ancora è prematuro parlare di “nuova fase di sviluppo” per un territorio che ha visto ristretti i margini geografici ed anche le risorse economiche sottratti dalle giovani province di Vibo Valentia e Crotone.
Non altrettanto positivi sono i riscontri che arrivano dal Comune che dallo scorso anno è guidato da un politico di lungo corso, Rosario Olivo, un passato nel Psi, poi approdato all’area diessina, già deputato e presidente della Regione. Grande esperienza amministrativa, ma difficoltà nel riavviare la macchina comunale di una città che presenta la sua immagine positiva attraverso il grande teatro progettato da Renzo Piano, che ha consentito una programmazione artistica degna di una metropoli.
Qui, meno che altrove, fatta eccezione per il Lamentino, la presenza delle organizzazioni mafiose è minore.
Il viaggio verso Reggio Calabria non è dei più facili, tra un cantiere e l’altro dell’autostrada, i cui lavori di ammodernamento sembrano non avere mai fine, sia per difficoltà economiche che per la serie di intimidazioni da parte delle cosche che controllano il territorio e che, nonostante varie iniziative della magistratura, con decine e decine di arresti, non rinunciano alla loro attività principale, quella delle estorsioni.
“Siamo arrivati al punto di chiedere l’intervento dell’esercito, spiegano i sindacalisti Mina Papasidero, Paolo Morganti.e Francesco Maviglia, che rappresentano la categoria degli edili di Cgil, Cisl e Uil, la pressione della mafia s’è fatta insostenibile, anche i sindaci dovrebbero darci una mano”.
Reggio vive uno dei momenti migliori della sua storia con un sindaco, Giuseppe Scopelliti, giovane, che tutti chiamano familiarmente Peppe, chiamato a raccogliere l’eredità di quell’ Italo Falcomatà, il protagonista della “primavera reggina” dopo anni d’immobilismo amministrativo tra una guerra di mafia e l’altra.
Scopelliti è riuscito ad interpretare al meglio i sentimenti popolari, ha speso forse male le risorse, come sostengono gli oppositori, ma ha ottenuto dal Governo la necessaria attenzione. Milioni di euro da investire, il simbolo della città, oltre al castello aragonese, è destinato a diventare il nuovo palazzo di giustizia, di straordinaria valenza architettonica.
Buoni i suoi rapporti con la Curia, Scopelliti ha assegnato ad associazioni antimafia e religiose beni sottratti con la confisca alla ‘ndrangheta. Stanno sorgendo ostelli, case di riposo, impianti destinati a cooperative e comunità terapeutiche.
Questo è l’anno dell’anniversario del disastroso terremoto del 28 dicembre 1908 che rase al suolo Reggio e Messina, che si guardano attraverso lo Stretto, e che ancora portano i segni di quello spaventoso cataclisma. Anche la Provincia, strappata alla destra con una percentuale altissima di consensi per Giuseppe Morabito, vecchio Pci, rigorosamente uomo di partito, farà la sua parte per ricordare alla memoria popolare un evento tragico che fece conoscere a tutto il mondo la realtà di due città cancellate in pochi secondi dall’onda di maremoto, dopo che la terra aveva tremato per quasi venti minuti.
Reggio è sede del consiglio regionale, frutto del compromesso che la classe politica trovò, per porre fine allo scontro con Catanzaro. Il presidente Giuseppe Bova, del partito democratico, di recente avvicinatosi alle posizioni di Massimo D’Alema, vuol passare alla storia per un’iniziativa che ha suscitato enormi consensi e che altre Regioni pare vogliano copiare.
Per evitare la fuga dei migliori cervelli verso il Nord (sono ancora tanti i giovani che vanno all’università altrove, e non tornano dopo la laurea) cinquecento neo laureati col massimo dei voti, per due anni, verranno stipendiati dalla Regione e fatti maturare con stage presso le imprese e nelle strutture burocratiche. Poi, toccherà ad altri cinquecento, con la speranza che molti di loro non preparino la valigia e incrementino l’emigrazione intellettuale.
Certo, le luci che s’accendono sono parecchie, ma altrettante sono le ombre che gravano su una città che, solo qualche anno fa, un parlamentare durante una delle abituali “passerelle” della Commissione antimafia, non esitò a definire la Beirut del Sud.
Intanto, le poche industrie esistenti sul territorio sono quasi tutte in difficoltà, aziende di grandi tradizioni, come la Mauro caffè, nota in tutto il mondo, sono passate di mano, la famiglia degli armatori Matacena, gli “inventori” del traghettamento privato nello Stretto di Messina, ha preferito andarsene a vivere a Montecarlo.
C’è Gioia Tauro, col più grande porto del Mediterraneo per la movimentazione di container, ma anche uno scalo ad alto rischio per l’infiltrazione delle temibili famiglie mafiose della Piana. Di tanto in tanto, si diffonde la voce di possibile abbandono delle grandi società di transhipment che sceglierebbero altri porti più sicuri dal punto di vista ambientale.
“Sarebbe una sciagura, commenta Michele Albanese, giornalista del Quotidiano della Calabria, che segue giornalmente le vicende del porto gioiese, sia per i riflessi sull’occupazione, qui è la nostra Fiat, che per la possibilità che avrebbero le cosche di reclutare giovani”.
Una sottile linea di confine divide la provincia reggina da quella di Vibo Valentia, solo qualche chilometro tra Rosarno e Nicotera, e più avanti una delle “perle” del Tirreno, quella Tropea che accoglie ogni anno migliaia di turisti da ogni parte del mondo.
Vibo, liberatasi dal “dominio” catanzarese, adesso cammina con le sue gambe, forte com’è della risorsa turismo che garantisce investimenti e benessere, nonostante la crisi che ha caratterizzato questi ultimi mesi.
Poi, l’industria della lavorazione del tonno, attorno alla quale sono nate attività collaterali. Il grande Acquapark di Zambrone ha aperto la strada ad altri impianti simili sorti nel Cosentino e nel Crotonese. Un prodotto della civiltà contadina, la piccantissima ma altrettanto gustosa ‘nduja, ha ormai varcato i confini di Spilinga, dove praticamente viene lavorata in ogni casa, per trovare mercato in tutta Italia.
Questa è la Calabria, che riesce a trovare dentro di sé la forza per superare ogni genere di avversità, da quelle della natura, a quelle causate dagli uomini. Vibo una macchia ce l’ha, ed è oggetto di quasi quotidiana attenzione sulla stampa locale. L’alluvione di due anni fa, che provocò danni ingentissimi e lutti, ha lasciato ancora evidenti i segni di una ricostruzione che tarda a mettersi in moto. Il fango è stato tolto dalle strade, ma ancora scuole inagibili, case crollate, strade cancellate, mentre si attende che qualcuno mantenga promesse solennemente fatte, davanti alle telecamere, a microfoni accesi.
Aspettano pure di non essere “mangiati” dalla frana che rischia di far scomparire quella manciata di case aggrappate a un costone, gli abitanti di Cavallerizzo, in provincia di Cosenza. Per giorni e giorni, in tanti, da Roma e Catanzaro, arrivarono fin quassù, promettendo che presto tutto sarebbe stato risolto ed ognuno di quelli costretti ad andarsene altrove, chiedendo ospitalità a parenti ed amici, o addirittura emigrando, sarebbe presto tornato a casa.
Cavallerizzo è l’emblema di quello “sfasciume pendulo” di cui parlava Giustino Fortunato, il meridionalista che più di ogni altro, seppe capire la Calabria.
Cosenza, che ha visto negli anni allargarsi urbanisticamente verso Rende, quasi a ridosso della città universitaria di Arcavacata, ha perso figure importanti di politici, quali Giacomo Mancini e Riccardo Misasi, per non dire di Antonio Guarasci, il primo presidente della Regione, che aveva una visione illuministica del governare.
Dopo la parentesi di Eva.Catizzone, pupilla di Mancini, entrata nelle cronache rosa e nel gossip più sguaiato, dopo la sua relazione con un big della sinistra, Nicola Adamo, che le ha dato un figlio, la città è governata da Salvatore Perugini, un figlio d’arte (il padre è stato a lungo parlamentare regionale e nazionale) che sta puntando sulla riqualificazione del magnifico centro storico e nel miglioramento dei collegamenti, grazie anche all’autostrada, il cui tracciato l’allora ministro dei lavori pubblici, Giacomo Mancini, pretese venisse modificato per togliere dall’isolamento la città dei Bruzi.
Il giovane nipote del “Califfo”, come gli avversari politici usavano apostrofare l’anziano leader socialista, Giacomo junior, chiusa la sua breve parentesi da deputato della sinistra, viene ora insistentemente corteggiato da Berlusconi che, addirittura, lo vedrebbe candidato alla guida della Regione alle elezioni del 2010.
Chi sta peggio di tutte le province, è Crotone, un tempo “capitale” dell’industria, ma da anni stretta nella morsa delle ristrutturazioni e conseguenti migliaia di cassintegrati. Crotone significa Gerardo Sacco, orafo delle dive che piace anche ai Papi, numerose le opere per conto di varie Curie. Un mito per i giovani, anche per quelli che non lo hanno conosciuto, il cantante Rino Gaetano, morto tragicamente anni fa.
Ma anche la Calabria delle intelligenze esportate, delle grandi risorse artistiche e archeologiche, del mare splendido, della montagna con la sua bellezza selvaggia, degli scienziati in ogni campo, dalla fisica alla medicina.
Una terra tanto bella quanto sfortunata, tra terremoti, guerre, invasioni, alluvioni, epidemie che non hanno piegato la sua gente, sempre pronta a ricominciare, spinta da un innato fatalismo che la penna di grandi scrittori ha saputo mirabilmente descrivere.
Il calabrese, come diceva Corrado Alvaro, s’accontenta di poco, basta sapergli parlare, ed è ancora così come la videro i grandi viaggiatori e pensatori del passato, da Norman Douglas a Gioacchino da Fiore, da Tommaso Campanella, a Leonida Repaci ,da Edward Lear (memorabile il suo diario d’un viaggio a piedi) e Bernard Berenson.
Tra poche luci e molte ombre si va avanti. Negli ultimi anni, poi, i segni d’un cambiamento si sono visti, l’emigrazione s’è ridotta, qualche industria ha chiuso, ma qualche altra è nata, in alcuni settori, come confermano gli indici economici più recenti, la ripresa è evidente. Soprattutto, si sono intravisti segnali incoraggianti per quanto riguarda la presa di coscienza della gente per cui vivere nella legalità, a lungo andare, paga. Un esempio formidabile è venuto dalla Chiesa, da quella di provincia in particolare, le cooperative create dal vescovo Giancarlo Bregantini, che purtroppo ha lasciato la Calabria, hanno fatto scuola, l’esempio è stato seguito altrove. Una regione che ha rialzato la testa e che spera negli aiuti europei per rilanciare il turismo, migliorare le comunicazioni, creare occupazione, impedire l’emigrazione intellettuale. C’è poi da recuperare per attività legali l’enorme mole di beni sequestrati alla mafia, per milioni di euro. Qualcosa si sta facendo, ma ci sono ancora tanti ostacoli da superare. Gli amministratori devono capire che solo così la Calabria potrà diventare la California del Mediterraneo.
Catanzaro è il capoluogo di regione, un “pennacchio” per i reggini che hanno vissuto la rivolta popolare degli anni Settanta, un simbolo per gli abitanti della città dei tre colli, come viene chiamata, per la sua posizione che, fino a qualche anno fa, la rendeva quasi simile ad un nido di aquile.
Ora, grazie ad un reticolo di viadotti e svincoli che la collegano all’autostrada, Catanzaro si è sviluppata ed è andata nel tempo perdendo la fisionomia di capitale burocratica della regione. Infatti, nella zona di Marcellinara ha preso man mano corpo un agglomerato industriale di tutto rispetto, a pochi passi dall’aeroporto internazionale di Lamezia Terme, uno dei più sicuri d’Italia, in continuo aumento di passeggeri e di collegamenti.
Catanzaro è anche la sede del governo regionale che, dopo le elezioni di tre anni fa, è nelle mani di Agazio Loiero, ex democristiano avvicinatosi col tempo sempre più alla sinistra, anche se forte di un consenso personale ragguardevole. Intellettuale della Magna Grecia, per dirla col presidente Cossiga, il presidente della Giunta sta cercando di togliere dalle secche la navicella regionale, anche se i risultati, come ama spesso ripetere, li raccoglierà chi verrà dopo di lui che, in verità, ha dovuto più volte rimpastare l’esecutivo al punto da meritarsi la caustica definizione di Giunta…autobus, ogni tanto scende un assessore, e sale un altro.
Il fiore all’occhiello di Catanzaro, ma anche dell’intera Calabria, dovrebbe essere la cittadella regionale, un complesso mastodontico nel quale verrebbero riuniti tutti gli uffici e le strutture della Regione, risparmiando milioni di euro di affitti e consentendo uno snellimento delle procedure burocratiche con tutti gli assessorati in rete.
La cittadella è stata il cavallo di battaglia di Loiero, durante la campagna elettorale, dopo un quinquennio non proprio esaltante del governo di Giuseppe Chiaravalloti, ex magistrato nelle grazie di Silvio Berlusconi.
L’altro asso nella manica del governatore, che però corre il rischio di doversi trasformare in un boomerang, è la sponsorizzazione, costo otto milioni di euro, della Nazionale di calcio. L’U E, è notizia di questi giorni, avrebbe però trovato da ridire su come verrebbero spesi questi fondi europei. Qualcuno sostiene che si tratta di soldi destinati ad opere pubbliche e “distratti” per dare una lustrata all’immagine con il calabrese Gattuso testimonial .
All’estero, ci conferma la giornalista del The Wall Street Juornal, Deborah Ball, queste cose non piacciono molto. “Sto facendo un giro nella regione, ci dice, e sto anche scrivendo un libro sulla figura del grande stilista reggino Gianni Versace. Debbo confermare l’impressione favorevole che Reggio mi ha fatto, rispetto ad un recente passato, ma già dall’epoca Falcomatà c’era stata una svolta, dopo anni difficili. Certo, la gente è ancora chiusa, il calabrese, forse per ataviche diffidenze, è restio ad aprirsi al forestiero e non accetta volentieri intromissioni nella vita quotidiana, è assai difficile avere informazioni per chi voglia condurre un’inchiesta, all’americana, appunto. Alla Provincia, già governata dalla destra, è arrivata una donna assai battagliera, Wanda Ferro, di An, alla quale è affidato il compito di proseguire l’opera dell’attivo compagno di partito Michele Traversa.
I programmi sono interessanti, anche perché alle donne ed ai giovani sono riservati spazi importanti, ma ancora è prematuro parlare di “nuova fase di sviluppo” per un territorio che ha visto ristretti i margini geografici ed anche le risorse economiche sottratti dalle giovani province di Vibo Valentia e Crotone.
Non altrettanto positivi sono i riscontri che arrivano dal Comune che dallo scorso anno è guidato da un politico di lungo corso, Rosario Olivo, un passato nel Psi, poi approdato all’area diessina, già deputato e presidente della Regione. Grande esperienza amministrativa, ma difficoltà nel riavviare la macchina comunale di una città che presenta la sua immagine positiva attraverso il grande teatro progettato da Renzo Piano, che ha consentito una programmazione artistica degna di una metropoli.
Qui, meno che altrove, fatta eccezione per il Lamentino, la presenza delle organizzazioni mafiose è minore.
Il viaggio verso Reggio Calabria non è dei più facili, tra un cantiere e l’altro dell’autostrada, i cui lavori di ammodernamento sembrano non avere mai fine, sia per difficoltà economiche che per la serie di intimidazioni da parte delle cosche che controllano il territorio e che, nonostante varie iniziative della magistratura, con decine e decine di arresti, non rinunciano alla loro attività principale, quella delle estorsioni.
“Siamo arrivati al punto di chiedere l’intervento dell’esercito, spiegano i sindacalisti Mina Papasidero, Paolo Morganti.e Francesco Maviglia, che rappresentano la categoria degli edili di Cgil, Cisl e Uil, la pressione della mafia s’è fatta insostenibile, anche i sindaci dovrebbero darci una mano”.
Reggio vive uno dei momenti migliori della sua storia con un sindaco, Giuseppe Scopelliti, giovane, che tutti chiamano familiarmente Peppe, chiamato a raccogliere l’eredità di quell’ Italo Falcomatà, il protagonista della “primavera reggina” dopo anni d’immobilismo amministrativo tra una guerra di mafia e l’altra.
Scopelliti è riuscito ad interpretare al meglio i sentimenti popolari, ha speso forse male le risorse, come sostengono gli oppositori, ma ha ottenuto dal Governo la necessaria attenzione. Milioni di euro da investire, il simbolo della città, oltre al castello aragonese, è destinato a diventare il nuovo palazzo di giustizia, di straordinaria valenza architettonica.
Buoni i suoi rapporti con la Curia, Scopelliti ha assegnato ad associazioni antimafia e religiose beni sottratti con la confisca alla ‘ndrangheta. Stanno sorgendo ostelli, case di riposo, impianti destinati a cooperative e comunità terapeutiche.
Questo è l’anno dell’anniversario del disastroso terremoto del 28 dicembre 1908 che rase al suolo Reggio e Messina, che si guardano attraverso lo Stretto, e che ancora portano i segni di quello spaventoso cataclisma. Anche la Provincia, strappata alla destra con una percentuale altissima di consensi per Giuseppe Morabito, vecchio Pci, rigorosamente uomo di partito, farà la sua parte per ricordare alla memoria popolare un evento tragico che fece conoscere a tutto il mondo la realtà di due città cancellate in pochi secondi dall’onda di maremoto, dopo che la terra aveva tremato per quasi venti minuti.
Reggio è sede del consiglio regionale, frutto del compromesso che la classe politica trovò, per porre fine allo scontro con Catanzaro. Il presidente Giuseppe Bova, del partito democratico, di recente avvicinatosi alle posizioni di Massimo D’Alema, vuol passare alla storia per un’iniziativa che ha suscitato enormi consensi e che altre Regioni pare vogliano copiare.
Per evitare la fuga dei migliori cervelli verso il Nord (sono ancora tanti i giovani che vanno all’università altrove, e non tornano dopo la laurea) cinquecento neo laureati col massimo dei voti, per due anni, verranno stipendiati dalla Regione e fatti maturare con stage presso le imprese e nelle strutture burocratiche. Poi, toccherà ad altri cinquecento, con la speranza che molti di loro non preparino la valigia e incrementino l’emigrazione intellettuale.
Certo, le luci che s’accendono sono parecchie, ma altrettante sono le ombre che gravano su una città che, solo qualche anno fa, un parlamentare durante una delle abituali “passerelle” della Commissione antimafia, non esitò a definire la Beirut del Sud.
Intanto, le poche industrie esistenti sul territorio sono quasi tutte in difficoltà, aziende di grandi tradizioni, come la Mauro caffè, nota in tutto il mondo, sono passate di mano, la famiglia degli armatori Matacena, gli “inventori” del traghettamento privato nello Stretto di Messina, ha preferito andarsene a vivere a Montecarlo.
C’è Gioia Tauro, col più grande porto del Mediterraneo per la movimentazione di container, ma anche uno scalo ad alto rischio per l’infiltrazione delle temibili famiglie mafiose della Piana. Di tanto in tanto, si diffonde la voce di possibile abbandono delle grandi società di transhipment che sceglierebbero altri porti più sicuri dal punto di vista ambientale.
“Sarebbe una sciagura, commenta Michele Albanese, giornalista del Quotidiano della Calabria, che segue giornalmente le vicende del porto gioiese, sia per i riflessi sull’occupazione, qui è la nostra Fiat, che per la possibilità che avrebbero le cosche di reclutare giovani”.
Una sottile linea di confine divide la provincia reggina da quella di Vibo Valentia, solo qualche chilometro tra Rosarno e Nicotera, e più avanti una delle “perle” del Tirreno, quella Tropea che accoglie ogni anno migliaia di turisti da ogni parte del mondo.
Vibo, liberatasi dal “dominio” catanzarese, adesso cammina con le sue gambe, forte com’è della risorsa turismo che garantisce investimenti e benessere, nonostante la crisi che ha caratterizzato questi ultimi mesi.
Poi, l’industria della lavorazione del tonno, attorno alla quale sono nate attività collaterali. Il grande Acquapark di Zambrone ha aperto la strada ad altri impianti simili sorti nel Cosentino e nel Crotonese. Un prodotto della civiltà contadina, la piccantissima ma altrettanto gustosa ‘nduja, ha ormai varcato i confini di Spilinga, dove praticamente viene lavorata in ogni casa, per trovare mercato in tutta Italia.
Questa è la Calabria, che riesce a trovare dentro di sé la forza per superare ogni genere di avversità, da quelle della natura, a quelle causate dagli uomini. Vibo una macchia ce l’ha, ed è oggetto di quasi quotidiana attenzione sulla stampa locale. L’alluvione di due anni fa, che provocò danni ingentissimi e lutti, ha lasciato ancora evidenti i segni di una ricostruzione che tarda a mettersi in moto. Il fango è stato tolto dalle strade, ma ancora scuole inagibili, case crollate, strade cancellate, mentre si attende che qualcuno mantenga promesse solennemente fatte, davanti alle telecamere, a microfoni accesi.
Aspettano pure di non essere “mangiati” dalla frana che rischia di far scomparire quella manciata di case aggrappate a un costone, gli abitanti di Cavallerizzo, in provincia di Cosenza. Per giorni e giorni, in tanti, da Roma e Catanzaro, arrivarono fin quassù, promettendo che presto tutto sarebbe stato risolto ed ognuno di quelli costretti ad andarsene altrove, chiedendo ospitalità a parenti ed amici, o addirittura emigrando, sarebbe presto tornato a casa.
Cavallerizzo è l’emblema di quello “sfasciume pendulo” di cui parlava Giustino Fortunato, il meridionalista che più di ogni altro, seppe capire la Calabria.
Cosenza, che ha visto negli anni allargarsi urbanisticamente verso Rende, quasi a ridosso della città universitaria di Arcavacata, ha perso figure importanti di politici, quali Giacomo Mancini e Riccardo Misasi, per non dire di Antonio Guarasci, il primo presidente della Regione, che aveva una visione illuministica del governare.
Dopo la parentesi di Eva.Catizzone, pupilla di Mancini, entrata nelle cronache rosa e nel gossip più sguaiato, dopo la sua relazione con un big della sinistra, Nicola Adamo, che le ha dato un figlio, la città è governata da Salvatore Perugini, un figlio d’arte (il padre è stato a lungo parlamentare regionale e nazionale) che sta puntando sulla riqualificazione del magnifico centro storico e nel miglioramento dei collegamenti, grazie anche all’autostrada, il cui tracciato l’allora ministro dei lavori pubblici, Giacomo Mancini, pretese venisse modificato per togliere dall’isolamento la città dei Bruzi.
Il giovane nipote del “Califfo”, come gli avversari politici usavano apostrofare l’anziano leader socialista, Giacomo junior, chiusa la sua breve parentesi da deputato della sinistra, viene ora insistentemente corteggiato da Berlusconi che, addirittura, lo vedrebbe candidato alla guida della Regione alle elezioni del 2010.
Chi sta peggio di tutte le province, è Crotone, un tempo “capitale” dell’industria, ma da anni stretta nella morsa delle ristrutturazioni e conseguenti migliaia di cassintegrati. Crotone significa Gerardo Sacco, orafo delle dive che piace anche ai Papi, numerose le opere per conto di varie Curie. Un mito per i giovani, anche per quelli che non lo hanno conosciuto, il cantante Rino Gaetano, morto tragicamente anni fa.
06/10/08
LA MORTE NON TIENE CONTO DELL'ANAGRAFE
Viaggiare lungo la Salerno-Reggio Calabria, la domenica mattina presto, ti mette al riparo dalle code nei tratti a doppio senso, che causa lavori sono ancora parecchi, e se non trovi intoppi, ce la fai a raggiungere Roma in tempo per andare a gustarti l'abbacchio nel ristorante preferito, che può essere l'Osteria Romana di via San Paolo alla Regola, proprio dietro il ministero della giustizia, oppure Pompeo, in piazza della Pollarola, a pochi passi da Campo dei Fiori. I carciofi che l'amico Lino prepara sono eccezionali e riesce anche ad avere, dalla pescheria di sua proprietà, roba freschissima.
Il viaggio, uno dei tantissimi che faccio ormai da quattro anni, da quando ho deciso di riunire nella Capitale la famiglia, era stato liscio come l'olio, lunghi tratti completamente da solo con la mia Focus cabriolet di pochi mesi, che ha una tenuta di strada eccezionale. Ad un tratto, uno dei cartelli luminosi, siamo già in Campania e pregusto la solita sosta al caseificio La Pagliara per comprare straordinarie mozzarelle di bufala, ci avverte che lo svincolo di Capua è chiuso per incidente. La cosa non mi preoccupa, Caianello è dopo, ma solo qualche minuto, e lo spettacolo che si presenta ai miei occhi è di quelli che, nonostante i quarant'anni e passa di vita da cronista, non capita spesso di vedere.
L'incidente è avvenuto subito dopo l'imbocco dello svincolo, c'è un'ambulanza ferma coi lampeggianti accesi, una grossa moto ribaltata in mezzo alla carreggiata, il corpo d'una persona coperto da un lenzuolo e, accanto, un motociclista, con tanto di tuta alla Valentino Rossi, inginocchiato che singhiozza e si tiene il capo tra le mani.
Ebbene, si, quella coppia l'avevo notata, parecchi chilometri prima, nella zona di Lagonegro, sfrecciarmi accanto a velocità assai sostenuta (io ero sui 120) e mi aveva dato un brivido lo spostamento d'aria improvviso quando mi era passata accanto quella grossa moto. La corsa era finita lì, ognuno rallenta, mentre un agente della Polstrad agita furioso la paletta, ma poi tutti riprendono la marcia, il rettilineo invita a dar gas, anch'io lo faccio, ma la giornata non sarà più la stessa. Mi chiedo perchè questi giovani motociclisti non si rendano conto che le nostre strade non sono i circuiti, e che l'attrezzatura di protezione non basta. Poi, quella velocità.......la morte non consulta l'anagrafe. Non ci resta che una preghiera per quel povero ragazzo, che Dio lo renda felice nel mondo dei Cieli.
04/10/08
IL "MERAVIGLIATO DELLA GROTTA"
Per anni è stato il simbolo di quella che veniva chiamata, con linguaggio burocratico, la "conurbazione" tra Reggio e Messina, due splendide città che si specchiano nelle acque azzurrissime dello Stretto in un rapporto di odio-amore che gli anni non hanno sopito.
Il pilone di santa Trada, appoggiato sulla collina che degrada verso un'insenatura rocciosa, aveva il suo gemello sull'altra sponda, due giganti d'acciaio che erano, e lo sono ancora, la meraviglia di chi per va per mare e ha la fortuna di solcare quelle acque.
La notizia ha colto tutti di sorpresa, compreso chi sorpreso non sarebbe dovuto essere, e giustamente Giuliano Quattrone che ogni sabato legge i giornali alla rassegna stampa di Reggio Tv, ha definito l'assessore provinciale all'ambiente, il "meravigliato della grotta".
L'allusione a quel personaggio dell'immaginario collettivo che cade in estasi davanti alla Natività è quanto mai calzante, in quanto è difficile credere alla "sorpresa" del giovane amministratore dopo aver appreso la notizia dell'avvenuta vendita a privati da parte dell'Enel.
Quello che, da cittadini, ci chiediamo è di conoscere con chiarezza i termini dell'affare e quale destinazione verrà data al Pilone, per anni luogo d'incontro di coppie clandestine e non, per momenti d'amore davanti a un paesaggio da favola.
Certo, aprire un locale lassù, costruire un ascensore per portare fino alla cima i turisti che arriverebbero, a questo punto, da ogni parte del mondo, sarebbe un business eccezionale. A questo punto, crediamo che anche il Pilone gemello verrà messo in vendita, se la cosa non è già avvenuta, alla faccia delle amministrazioni locali sempre distratte e che, in questa vicenda, non ci fanno una bella figura. E non ci vengano a raccontare che nessuno li aveva informati. Per favore, ci vengano risparmiati i soliti comunicati di maniera, con i soliti politici sempre pronti a giustificare la loro esistenza in...vita (politica, s'intende) comparendo sorridenti in una delle pagine di cronaca dei giornali locali.
03/10/08
MORTI BIANCHE, EMERGENZA NAZIONALE
Solo a vederla, quella foto del pilone dal quale sono caduti quei poveri disgraziati, mette un brivido che percorre la schiena e senti un tuffo al cuore.
Ancora morti bianche, come vengono definite nel linguaggio, talvolta cinico, dei cronisti, ancora vite spezzate durante il lavoro, e stavolta la Calabria e il Sud piangono due suoi figli che, per cercare occupazione, hanno dovuto prendere, malinconicamente ma fatalmente, la strada dell’emigrazione.
Adesso assisteremo al solito rito delle condanne, degli interventi dei cosiddetti esperti, dei moralisti a buon prezzo, degli imprenditori che cercano di difendersi e dei sindacati che decidono scioperi ben sapendo che, purtroppo, anche dopo quest’ennesima strage, poco o nulla cambierà.
Ci si interroga sui come e sui perché continuino ad accadere disgrazie del genere, qualcuno si era illuso che, chi di dovere, avesse deciso, una volta per tutte, di far rispettare le regole in un settore, quello dell’edilizia, dove la morte è sempre in agguato, dove gli operai vengono pagati in nero e, stranamente, vengono registrati lo stesso giorno in cui accade il fatale incidente.
Sentiremo la solita musica, dei tagli del Governo che non permettono di avere più ispettori del Lavoro, dei mezzi che mancano per fare i controlli, delle compiacenze di qualcuno che “aiuta” imprenditori senza scrupoli. Intanto, si attende l’esito dell’inchiesta della magistratura, forse qualcuno pagherà, probabilmente tutto si chiuderà con l’accordo tra avvocati, un pò di denaro alle famiglie, perché tutto resti come prima.
Pur di aggiudicarsi un appalto, si fanno ribassi inconcepibili, per cui stare nelle spese non è facile, per produrre utili bisogna risparmiare sulla manodopera, e finchè sarà così altri Giovanni, altri Rosario, e tanti altri ancora, offriranno il loro tributo di sangue, lasciandosi dietro una scia di dolore.
Eppure, i mezzi per far finire questa autentica emergenza ci sarebbero, basta applicare leggi e norme che già esistono e impedire di esercitare l’attività a quelle imprese che mandano a morte innocenti, gente che pur di portare a casa il salario, tace e lavora sodo. Il loro è un silenzio agghiacciante, perché è un silenzio di morte.
Ancora morti bianche, come vengono definite nel linguaggio, talvolta cinico, dei cronisti, ancora vite spezzate durante il lavoro, e stavolta la Calabria e il Sud piangono due suoi figli che, per cercare occupazione, hanno dovuto prendere, malinconicamente ma fatalmente, la strada dell’emigrazione.
Adesso assisteremo al solito rito delle condanne, degli interventi dei cosiddetti esperti, dei moralisti a buon prezzo, degli imprenditori che cercano di difendersi e dei sindacati che decidono scioperi ben sapendo che, purtroppo, anche dopo quest’ennesima strage, poco o nulla cambierà.
Ci si interroga sui come e sui perché continuino ad accadere disgrazie del genere, qualcuno si era illuso che, chi di dovere, avesse deciso, una volta per tutte, di far rispettare le regole in un settore, quello dell’edilizia, dove la morte è sempre in agguato, dove gli operai vengono pagati in nero e, stranamente, vengono registrati lo stesso giorno in cui accade il fatale incidente.
Sentiremo la solita musica, dei tagli del Governo che non permettono di avere più ispettori del Lavoro, dei mezzi che mancano per fare i controlli, delle compiacenze di qualcuno che “aiuta” imprenditori senza scrupoli. Intanto, si attende l’esito dell’inchiesta della magistratura, forse qualcuno pagherà, probabilmente tutto si chiuderà con l’accordo tra avvocati, un pò di denaro alle famiglie, perché tutto resti come prima.
Pur di aggiudicarsi un appalto, si fanno ribassi inconcepibili, per cui stare nelle spese non è facile, per produrre utili bisogna risparmiare sulla manodopera, e finchè sarà così altri Giovanni, altri Rosario, e tanti altri ancora, offriranno il loro tributo di sangue, lasciandosi dietro una scia di dolore.
Eppure, i mezzi per far finire questa autentica emergenza ci sarebbero, basta applicare leggi e norme che già esistono e impedire di esercitare l’attività a quelle imprese che mandano a morte innocenti, gente che pur di portare a casa il salario, tace e lavora sodo. Il loro è un silenzio agghiacciante, perché è un silenzio di morte.
02/10/08
LA SOLITA AUTO BRUCIATA, NELLE BREVI DI CRONACA
Ormai, a meno che non si tratti di persone conosciute, o che ricoprono cariche pubbliche, le notizie, purtroppo con cadenza quotidiana, di attentati incendiari che...movimentano le notti reggine, vengono relegate in poche righe, con le sole iniziali della vittima di turno.
Nessuno si preoccupa, però, di quello che c'è dietro, del dramma vero e proprio delle famiglie oggetto di "attenzioni" da parte di coloro i quali sono stati definiti "operatori" (sic) della notte. Per noi si tratta di criminali, che andrebbero trattati, una volta scoperti e spediti nelle patrie galere, alla stregua dei mafiosi, degli assassini, dei delinquenti comuni che, almeno loro, compiono i crimini per scelta.
Basta poco, dicono gli esperti, per distruggere un'auto in pochi minuti, vista la grande quantità di materiale plastico con il quale sono costruite e la presenza di pannelli elettronici che, una volta danneggiati, rendono il veicolo pressochè inservibile.
Certamente, come nel caso dell'architetto Putortì, anche lui come altri funzionari del Comune presi di mira, c'è una reazione, scatta la solidarietà, prefetto, questore, comandante dei carabinieri sollecitano, nel caso ce ne fosse bisogno, maggiore impegno nel controllo del territorio.
Ormai diventa una notizia grossa quando qualche incendiario viene "pizzicato" sul fatto, ma purtroppo ciò accade molto raramente. Nella maggior parte dei casi si tratta dell'esecutore materiale che ha agito per conto di chi non viene però individuato.
Tra coloro che hanno la sgradita sorpresa di essere svegliati nel cuore della notte e vedere l'auto, comprata con sacrifici e magari ancora da pagare, divorata dal fuoco che, talvolta, danneggia altri mezzi parcheggiati nelle vicinanze provocando al già disgraziato proprietario della macchina bruciata, altri grattacapi, ci sono cittadini "normali" di cui nessuno si preoccupa più di tanto.
Da anni le forze di polizia cercano una strategia efficace per combattere un fenomeno che vede la nostra città in testa alle graduatorie per reati del genere, che non riguardano solo le automobili.
Dalla video sorveglianza potrebbe arrivare un valido aiuto, ma noi crediamo che il silenzio di chi vede, e magari sa, è il migliore aiuto per chi, nascosto nell'ombra, mette in atto la sua vendetta, spesso per banali motivi. Per qualche giorno, visto l'eclatante gesto di cui è rimasto vittima l'architetto Putortì, i riflettori della cronaca resteranno accesi, poi la "solita" auto bruciata finirà relegata nelle brevi di cronaca.
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