Giuseppe Reale |
Reggio è una città che ha la memoria corta, dimentica spesso i suoi figli migliori, anche coloro che hanno recato lustro e che, con la loro opera, hanno contribuito a fare la storia di quella che, un tempo, era "bella e gentile".
In questi giorni si ricorda Italo Falcomatà, strappato alla vita nel momento migliore, quando, dopo aver contribuito a far risorgere Reggio dalle macerie di stagioni fatte di violenza, lutti, corruzione e degrado, si apprestava forse ad aver riconosciuti i suoi meriti in campo nazionale.
Si ricorda Italo, attraverso i suoi scritti, ma ci si dimentica di un altro sindaco, anche se lo fu per breve tempo, in momenti drammatici, dopo la Tangentopoli: lui che reggino non era, ma che amava la città che lo aveva adottato. Parliamo di Giuseppe Reale, professore venuto da Maratea, che seppe conquistarsi le simpatie dei reggini e la fiducia degli elettori di un grande partito come la Democrazia Cristiana.
Peppino, come lo chiamavano tutti, arrivò alla Camera e non si mise certo a riscaldare le comode poltrone romane.
A Reggio, una dopo l'altra, arriveranno l'Accademia di Belle Arti, il Conservatorio di musica, il potenziamento dell'aeroporto, e verranno poste le basi per la nascita dell'università Mediterranea, prima la facoltà d'architettura, poi le altre.
Ma la cosa di cui Reale andava fiero, e per la quale si è impegnato fino alla scomparsa, ormai ultra novantenne, era l'università per stranieri, fiore all'occhiello d'una città purtroppo devastata da anni di disamministrazione, culminati nel cosiddetto "modello Reggio" che ha avuto il suo epigono nel governatorissimo della Calabria, quel Giuseppe Scopelliti che ormai a livello nazionale viene indicato ad esempio negativo, ma i reggini ne hanno viste tante e sopportano pazientemente che le finanze comunali vengano saccheggiate, che il Comune venga commissariato per "contiguità" con la mafia, che a personaggi di qualità diciamo scadente, per essere buoni, vengano affidati incarichi di prestigio.
Peppino Reale ha vissuto diremmo quasi monasticamente. Andai a trovarlo a casa, quando era sindaco (il suo vice era l'imprevedibile cavaliere Amedeo Matacena, che gliene combinava una al giorno) era una giornata fredda, e mi accorsi, entrando nel suo studio, che non aveva il riscaldamento. In Municipio ci andava a piedi, non aveva un esercito di portaborse, addetti stampa, segretarie sculettanti, auto blindate con scorta.
Quanta riconoscenza dobbiamo ad uomini come lui che nella storia un posto, comunque, se lo sono conquistato, e non nelle cronache giudiziarie.