01/06/10

GIORNALISTI MINACCIATI: IL CASO DI MICHELE ALBANESE


“Sette”, il magazine del Corriere della Sera, ha dedicato un ampio servizio al libro-inchiesta di Roberta Mani e Roberto Rossi dal titolo “Avamposto nella Calabria dei giornalisti infami” occupandosi, in particolare, del caso di un collega, Michele Albanese, cui, tra l’altro, mi lega un’ affettuosa amicizia. Michele è da tempo nel mirino di chi vorrebbe impedirgli di continuare a scrivere da una redazione di frontiera qual è quella della Piana (con sede a Polistena) del Quotidiano della Calabria.
Prima qualche telefonata, poi minacce larvate, “consigli” non proprio disinteressati, poi l’intimazione tramite posta, direttamente alla direzione del giornale cosentino, affidata da qualche anno al napoletano Matteo Cosenza.
A qualcuno non sono piaciuti i servizi apparsi sul quotidiano durante quella che è stata definita la rivolta degli schiavi di Rosarno, cioè dei lavoratori extra comunitari impegnati nella raccolta degli agrumi controllata dalle cosche locali.
E’ scattata la solidarietà, ad ogni livello, Michele Albanese non è stato lasciato solo, almeno nelle apparenze, la magistratura inquirente s’è mossa, poi tutto è rientrato nell’alveo della normalità, lui ha ripreso il suo lavoro, il giornale esce ogni giorno, restano i problemi d’una famiglia in ansia, d’una bambina che a scuola viene additata da un compagno di classe come figlia dell’infame, l’ingiuria più grave per un calabrese, specialmente per chi vive in certe zone.
L’elenco dei colleghi che negli ultimi tempi hanno ricevuto pesanti minacce, attentati, condizionamenti d’ogni genere, avvertimenti trasversali, è lunghissimo, la Calabria, come hanno scritto Mani e Rossi, è la regione più colpita, non bastasse la crisi, la politica litigiosa, il malgoverno, il disastro del territorio, la presenza asfissiante della ‘ndrangheta.
Ho qualche esperienza in materia: conservo una vera e propria “collezione” di lettere con minacce e di altri “oggetti”, del resto con una lunghissima carriera da cronista, specialista in nera e giudiziaria, non poteva essere diversamente.
Al mio amico Michele, che purtroppo non riesce ancora a diventare professionista, in quanto il giornale non rilascia la certificazione necessaria e s’è dovuto rivolgere all’Ordine per avere quella d’ufficio e presentarsi agli esami, ho dato, oltre al mio conforto morale, per quello che può servire, qualche consiglio dettato dall’esperienza. Gli ho suggerito di guardarsi bene attorno, a cominciare dall’ambiente, diciamo così, lavorativo e tenere d’occhio quei soggetti che in apparenza fanno dell’antimafia la loro bandiera, nascondendo ben altri scopi.
Racconto solo un episodio, emblematico: ero in servizio alla redazione reggina di Gazzetta del Sud da appena 48 ore e mi ero dovuto subito occupare dell’omicidio, tra le mura del carcere, del figlio d’un potente boss, vittima del cecchino da me definito dalla mira olimpionica.
Nella buca delle lettere, una missiva composta coi caratteri ritagliati da vari giornali con un agghiacciante annuncio: ti ridurremo a colpi di mitra che neppure tua madre potrà riconoscerti. Erano in pochi, tranne i miei familiari, ad essere a conoscenza del mio improvviso trasferimento da Messina a Reggio, dopo la prematura scomparsa di Gigi Malafarina. Non aggiungo altro.

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