C’è una donna che, ogni notte, da venti lunghissimi anni, fa lo stesso sogno.
Poco prima che scocchi la mezzanotte, sente qualcuno che bussa alla porta: è uno che ha la chiave di casa, ma che non può usarla, perché da migliaia di giorni è scomparso, come inghiottito dalle tenebre, sparito nel nulla.
E’ uno dei sequestrati che non sono tornati, è Vincenzo Medici, rapito il 21 dicembre del 1989 a Bianco e di cui, come recita l’arida forma dei mattinali di polizia, “non si hanno più notizie”.
Giovanna Ielasi, la moglie, lo rivede col suo sorriso bonario sul faccione rubizzo, ha in mano un enorme fascio di rose.
Era il mestiere suo, quello di coltivare piante e fiori, e anche quella sera, sotto un cielo stellato, era andato in azienda a vedere se tutto fosse a posto, a seguire, quasi tenendo il fiato sospeso, la crescita nelle serre illuminate in quel mare di verde.
Casa e lavoro, famiglia e lavoro: pur non avendo avuto figli, Vincenzo, Enzo per gli amici, e Giovanna erano assai uniti, colmavano questa lacuna riversando ondate d’affetto sui nipoti, i fratelli.
E su un mobile, nella casa silenziosa, dove nessuno quasi mai, da “quel” giorno, apre le finestre, c’è una bella foto a colori, che ritrae Vincenzo Medici (“zio Enzo”) con la nipote Patrizia, figlia del fratello Giulio, l’avvocato, che venne bloccato a Roma all’uscita d’una banca con nella borsa il denaro che faticosamente era riuscito a raccogliere, nella speranza di poter aprire una trattativa con gli spietati “esattori” della cosiddetta Anonima sequestri della Locride.
Lo Stato mostrò la sua faccia più dura, i soldi vennero sequestrati, e il telefonista della banda non fece più sentire quella voce metallica, quasi spaziale, una voce che ancor oggi mette i brividi, a risentirla, incisa sul nastro d’una vecchia cassetta.
I Medici vivono questo dramma in dignitoso silenzio: non si sono affidati ad altri, se non alla speranza.
Niente taglie, neppure appelli sui giornali, una composta sofferenza vissuta ogni giorno, una sorta di calvario che lascia dietro di sé soltanto un senso d’impotenza, una spossatezza morale.
Niente più visite in Procura, a Locri, dove ancora non si è riusciti a squarciare il velo del mistero sui cosiddetti “riscatti di Stato”, pagati, eccome, per la liberazione di altri sequestrati. Una pagina nera per le Istituzioni, mentre c’è chi si gode ancora il denaro ricevuto in cambio di presunte “informazioni”.
Il caso è ufficialmente ancora aperto, l’inchiesta è però inesorabilmente finita sul binario morto dell’archiviazione.
Si è sperato, in questi anni, nella pletora di pentiti più o meno attendibili, ma nessuno di loro, almeno finora, ha detto di sapere qualcosa della sorte di Vincenzo Medici, uomo generoso, che aveva creato lavoro e benessere per tanta gente, in una zona dove, a tratti, il profumo intenso della salsedine, si mescola a quello del gelsomino in fiore, e ne viene fuori un’essenza inebriante, che stordì i primi coloni greci sbarcati migliaia d’anni fa, che dalla costa risalirono le sassose fiumare fino ad incontrare i brulli calanchi tipici d’un paesaggio che ispirò Cesare Pavese, esule a pochi chilometri, a Brancaleone.
Giovanna Medici non ha ancora smesso di credere in quella gente ionica, è rimasta tra loro, non cova odio, rivendica soltanto il diritto di sapere e non vuol rassegnarsi alla rassegnazione.
Poco prima che scocchi la mezzanotte, sente qualcuno che bussa alla porta: è uno che ha la chiave di casa, ma che non può usarla, perché da migliaia di giorni è scomparso, come inghiottito dalle tenebre, sparito nel nulla.
E’ uno dei sequestrati che non sono tornati, è Vincenzo Medici, rapito il 21 dicembre del 1989 a Bianco e di cui, come recita l’arida forma dei mattinali di polizia, “non si hanno più notizie”.
Giovanna Ielasi, la moglie, lo rivede col suo sorriso bonario sul faccione rubizzo, ha in mano un enorme fascio di rose.
Era il mestiere suo, quello di coltivare piante e fiori, e anche quella sera, sotto un cielo stellato, era andato in azienda a vedere se tutto fosse a posto, a seguire, quasi tenendo il fiato sospeso, la crescita nelle serre illuminate in quel mare di verde.
Casa e lavoro, famiglia e lavoro: pur non avendo avuto figli, Vincenzo, Enzo per gli amici, e Giovanna erano assai uniti, colmavano questa lacuna riversando ondate d’affetto sui nipoti, i fratelli.
E su un mobile, nella casa silenziosa, dove nessuno quasi mai, da “quel” giorno, apre le finestre, c’è una bella foto a colori, che ritrae Vincenzo Medici (“zio Enzo”) con la nipote Patrizia, figlia del fratello Giulio, l’avvocato, che venne bloccato a Roma all’uscita d’una banca con nella borsa il denaro che faticosamente era riuscito a raccogliere, nella speranza di poter aprire una trattativa con gli spietati “esattori” della cosiddetta Anonima sequestri della Locride.
Lo Stato mostrò la sua faccia più dura, i soldi vennero sequestrati, e il telefonista della banda non fece più sentire quella voce metallica, quasi spaziale, una voce che ancor oggi mette i brividi, a risentirla, incisa sul nastro d’una vecchia cassetta.
I Medici vivono questo dramma in dignitoso silenzio: non si sono affidati ad altri, se non alla speranza.
Niente taglie, neppure appelli sui giornali, una composta sofferenza vissuta ogni giorno, una sorta di calvario che lascia dietro di sé soltanto un senso d’impotenza, una spossatezza morale.
Niente più visite in Procura, a Locri, dove ancora non si è riusciti a squarciare il velo del mistero sui cosiddetti “riscatti di Stato”, pagati, eccome, per la liberazione di altri sequestrati. Una pagina nera per le Istituzioni, mentre c’è chi si gode ancora il denaro ricevuto in cambio di presunte “informazioni”.
Il caso è ufficialmente ancora aperto, l’inchiesta è però inesorabilmente finita sul binario morto dell’archiviazione.
Si è sperato, in questi anni, nella pletora di pentiti più o meno attendibili, ma nessuno di loro, almeno finora, ha detto di sapere qualcosa della sorte di Vincenzo Medici, uomo generoso, che aveva creato lavoro e benessere per tanta gente, in una zona dove, a tratti, il profumo intenso della salsedine, si mescola a quello del gelsomino in fiore, e ne viene fuori un’essenza inebriante, che stordì i primi coloni greci sbarcati migliaia d’anni fa, che dalla costa risalirono le sassose fiumare fino ad incontrare i brulli calanchi tipici d’un paesaggio che ispirò Cesare Pavese, esule a pochi chilometri, a Brancaleone.
Giovanna Medici non ha ancora smesso di credere in quella gente ionica, è rimasta tra loro, non cova odio, rivendica soltanto il diritto di sapere e non vuol rassegnarsi alla rassegnazione.
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